I bisogni di salute del Paese sono profondamente mutati negli ultimi tre decenni. La popolazione italiana non può più essere considerata come un insieme indifferenziato, ma si frammenta in più sotto-popolazioni con bisogni molto diversi. Lo scenario oggi prevalente è quello delle cronicità, che riguarda circa il 40% della popolazione e che si traduce in problemi di salute che non possono trovare una risposta definitiva, richiedendo un intervento prolungato nel tempo. Il rapporto degli italiani con la sanità non è più largamente occasionale, ma rappresenta quindi una costante sia per il lato della domanda (i cittadini) che dell’offerta (il sistema sanitario). Se storicamente l’organizzazione della rete dei servizi ha fortemente ruotato attorno all’ospedale, oggi abbiamo una spinta chiaramente orientata verso la promozione dell’appropriatezza delle cure, spostando il contatto tra cittadini e SSN verso luoghi di cura a minore intensità di assistenza (il cosiddetto “territorio” spesso evocato nel corso della pandemia da Covid-19). Tutti i sistemi sanitari regionali (SSR) producono oggi un duplice sforzo: da un lato, spostare il baricentro delle cure verso il territorio e le “nuove” strutture di offerta come Case della Comunità o domicilio, anche sfruttando il ruolo della digitalizzazione; dall’altro, strutturare servizi e logiche di governo guardando all’insieme dei consumi di prestazioni di ciascun individuo. L’idea è che il cittadino, divenuto paziente, possa essere “preso in carico”, ossia accompagnato dal sistema nel suo percorso di cura.
Restano tuttavia limitate le risorse per operare in questa direzione. Non sorprende il recente appello di 14 esperti di riferimento del settore apparso nelle principali testate nazionali per sottolineare il sotto-finanziamento del SSN e la rilevanza di adeguare le risorse per sostenere tutela della salute e coesione sociale. Le dinamiche economiche e demografiche influenzano direttamente le risorse destinate alla sanità e rappresentano la cifra dei potenziali problemi di sostenibilità che riguardano il settore. I sistemi sanitari universalistici come quello italiano hanno diversi vantaggi rispetto al proprio funzionamento ma un punto di debolezza nevralgico: le risorse per la sanità vengono stabilite ogni anno a dicembre nella Legge finanziaria e quindi il settore compete direttamente con altri capitoli di spesa pubblica (es. istruzione, giustizia, difesa). La competizione si gioca su una metrica che più delle altre esprime le priorità di medio-lungo periodo nel settaggio di attese e aspettative del Paese, ossia i punti percentuali di PIL destinati al settore, che ci dicono quanto la nostra società ritiene importante la salute nel sistema istituzionale e nella nostra società.
Fino al 2010 il nostro SSN vede una crescita ed espansione costante della quota di risorse pubbliche destinategli (da 5,5% a 6,8% del PIL) in una stagione di stabilità economica del Paese; dal 2009-2010 si chiudono i rubinetti e la quota arriva nel 2019 al 6,4%. Nel 2020 arriva il Covid-19 e dopo un decennio di astinenza è all you can eat: i SSR fanno il pieno di personale e di altri fattori produttivi con procedure semplificate, senza pensare troppo al medio-lungo periodo. Nel 2022, complice la crisi internazionale e i primi sviluppi del PNRR, riemergono tuttavia i vincoli finanziari e di debito pubblico pre-pandemici. L’ultima NADEF (Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza) parla di 6,2% del PIL nei prossimi anni, abbondantemente al di sotto delle ultime rilevazioni su Germania, Francia e Regno Unito (tutte oltre l’8%). Nel frattempo “entrano” nuove attese e aspettative, attraverso l’allargamento dei servizi formalmente compresi nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), da garantire diffusamente alla popolazione, e la tendenza a preferire i trasferimenti monetari ai cittadini (cash) rispetto all’erogazione di servizi reali, tema endemico del nostro sistema di welfare.
Data la realistica impossibilità di aumenti strutturali del finanziamento pubblico destinato al settore, c’è da chiedersi come trovare strade alternative per garantire contestualmente sostenibilità di sistema e risposta ai bisogni espressi dalla popolazione. Iniziamo con segnalarne due prioritarie: da un lato, il ridimensionamento tra risorse disponibili e attese dei cittadini; dall’altro, fuoriuscire dalla banalizzazione del dibattito corrente sulle cd “liste d’attesa” e rendere più esplicita la necessità di prioritizzare linee di intervento rendendo coerente profilo di fabbisogni e consumi di prestazioni dei pazienti cronici.
Sotto il primo profilo, è chiaro che la tensione tra risorse e attese sia fisiologica e non sarà mai davvero risolta del tutto. Il punto è che quando il divario diventa troppo ampio si tende a ridurre la razionalità della risposta dei sistemi pubblici nel tentativo di superare la polemica del giorno (ad esempio, tenere aperto un pronto soccorso che andrebbe chiuso perché la comunità locale esprime il proprio dissenso). Questo fenomeno produce non solo un danno economico immediato ma mina anche la possibilità di organizzare una risposta razionale, riducendo gli spazi di intervento possibili e limitando la possibilità di governare il sistema e il comportamento dei suoi attori (dai cittadini agli erogatori). In altri termini, vuol dire rispondere alle emergenze in un quadro che peggiora la propria razionalità e che nel farlo produce iniquità perché le priorità di intervento non sono guidate da una riflessione a monte ma da interventi dettati dalle contingenze. Questa riflessione non implica che non ci siano spazi di miglioramento su cui intervenire. È infatti evidente che tutti i sistemi abbiano ampi spazi di miglioramento nel proprio funzionamento, ma il tema è di natura diversa: ad esempio, il dibattito pubblico guarda alle liste d’attesa come priorità, ma siamo sicuri che questo tema rappresenti realisticamente la priorità e/o che la questione sia posta da una prospettiva condivisibile?
Qui entra in gioco il secondo aspetto: la geografia della produzione di servizi non può essere scollegata dalla geografia dei bisogni. Continuare ad affrontare il tema dell’accesso alle cure guardando alle “liste d’attesa” significa banalizzare il dibattito e continuare a osservarlo dalla prospettiva poco lungimirante della produzione dei singoli ambulatori senza una riflessione seria rispetto ai consumi effettivi e/o potenziali dei pazienti in risposta ai loro bisogni. Detta in maniera più sintetica, significa smettere di guardare al “quanto” dalla prospettiva di chi eroga visite ed esami e iniziare a chiedersi “per chi” e “con quale livello di appropriatezza” le organizza. Avendo consapevolezza che non si potrà erogare tutto a tutti, ma che bisognerà operare delle dolorose scelte di prioritizzazione del target di cittadini-pazienti a cui si vuole dare risposta. Lo sforzo complesso e doloroso riguarderà la selezione di criteri di inclusione condivisi: priorità ai bed blockers, alle persone meno abbienti, agli individui più fragili?
Socializzando il tema e ragionando sulle sue caratteristiche sarà possibile sviluppare una programmazione che espliciti processi di prioritizzazione seri e che consenta di rispondere in maniera realistica a bisogni diversificati. Al contempo, un approccio maturo di questo tipo può consentire di tenere assieme i nodi della rete di erogazione (medico di famiglia, poliambulatori/case della comunità, specialisti, ospedale) e creare una filiera ordinata di servizi di continuità, su cui imbastire il dialogo nei diversi livelli istituzionali coinvolti (Ministero, Regioni, Aziende Sanitarie, erogatori privati accreditati), minimizzando l’accesso randomico alle cure da parte dei cittadini.