Ieri, al Congresso degli Stati Uniti, si è svolta la cerimonia che ha certificato la vittoria elettorale di Donald Trump contro Kamala Harris. Proprio Harris ha presieduto la riunione al Senato. Fuori nevicava e nei dintorni del Campidoglio non c’era quasi nessuno. Un 6 gennaio molto diverso da quello del 2021, quando i sostenitori di Trump davano l’assalto al parlamento.
In quelle tre ore – 187 minuti per la precisione – il presidente eletto è venuto meno ai doveri della sua carica. Non ha fatto nulla per fermare i manifestanti e, anzi, nelle prime fasi della marcia verso il Congresso aveva incoraggiato la folla a combattere.
Il giorno dopo, il 7 gennaio 2021, Trump ha cambiato versione, ma soltanto per poco. “Per chi ha compiuto atti di violenza e distruzione, non rappresenta il nostro Paese. E a coloro che hanno violato la legge, pagherete”, aveva detto.
Dichiarazioni invecchiate male. Il New York Times ha riavvolto il nastro della vicenda, raccontando come, sin dall’estate del 2021, gli alleati di Trump abbiano iniziato a diffondere una versione alternativa sulle cause dell’insurrezione, incolpando l’establishment democratico.
Tre anni di incessante propagazione di una teoria del complotto sull’attentato al Campidoglio sono stati l’apripista a una campagna elettorale incentrata, per dirla con le parole di Trump, anche sul “grande onore” di “concedere la grazia ai manifestanti pacifici del 6 gennaio, o come spesso li chiamo, gli ostaggi, trattati in modo molto duro e ingiusto”.
Trump rieletto, rivoltosi da perdonare
La vittoria alle elezioni di Trump significa anche la riabilitazione popolare di coloro che hanno distrutto le aule del Congresso e causato una rivolta a seguito della quale cinque persone sono morte e più di 140 agenti sono rimasti feriti.
Subito dopo gli eventi, quasi il 60% degli americani riteneva che a Trump sarebbe dovuta essere vietata la possibilità di ripresentarsi alle elezioni in futuro.
Come sottolinea il New York Times, il 6 gennaio è diventato una parte importante della campagna elettorale del candidato repubblicano. La difesa di coloro che hanno compiuto un attentato alla democrazia statunitense è diventata una difesa di quella stessa democrazia.
I veri colpevoli, secondo la narrativa fittizia avanzata dell’ex e futuro presidente, sarebbero i componenti del deep state di Washington, i democratici, i veri estremisti.
Promotori di questa versione sono stati nomi noti della destra trumpiana. Tucker Carlson, allora a Fox News, sosteneva nel documentario “Patriot Purge” che l’insurrezione fosse stata organizzata dall’Fbi. Deputati repubblicani, come Matt Gaetz – in un primo momento proposto da Trump come procuratore generale durante il suo secondo mandato – e Taylor Greene hanno supportato la tesi dell’operazione complottista.
Trump stesso ha iniziato a promuovere la verità alternativa dal momento in cui, in un comizio a luglio del 2021, ha chiesto pubblicamente chi avesse sparato “senza motivo” ad Ashli Babbit, una manifestante uccisa da un poliziotto nel corso della rivolta. Da quel momento in poi, il presidente ha iniziato a chiamare i manifestanti “ostaggi” e “prigionieri politici”.
La sorprendente velocità con cui Trump ha convinto mezzo Paese dell’innocenza dei condannati per gli eventi del 6 gennaio origina da scelte precise.
La prima è il supporto dato al movimento Freedom Corner, che per oltre due anni ha riunito vicino al carcere di Washington un gruppo di persone vicine ai manifestanti, guidate dalla madre di Ashli Babbit, per chiedere la liberazione dei detenuti.
Trump, ricorda il New York Times, ha poi messo in giro la voce falsa che Nancy Pelosi avrebbe rifiutato il suo consiglio di schierare 10mila soldati davanti alla sede del Campidoglio a Capitol Hill e ha iniziato a screditare le azioni del comitato della Camera che si occupava del caso.
Il presidente ha poi incontrato – e supportato a livello finanziario – una serie di personalità a capo di organizzazioni contro l’incarcerazione di coloro che avevano partecipato alla rivolta. Fra queste, Cynthia Hughes, fondatrice di Patriot Freedom Project, un’associazione vicina alle famiglie dei detenuti.
Infine, a marzo del 2023, Trump ha accettato di recitare il giuramento di fedeltà alla bandiera in una canzone nella quale un gruppo di manifestanti intonava l’inno nazionale registrato dal carcere di Washington.
Ad agosto dello stesso anno, l’allora ex presidente veniva incriminato per aver provato a ribaltare in modo illegale l’esito del voto del 2020 nello stato della Georgia e per aver ostacolato la certificazione del risultato elettorale.
Fra 13 giorni, quando si insedierà per la seconda volta alla Casa Bianca, Trump avrà l’opportunità di fare quello che ha promesso ai manifestanti e alle loro famiglie e ha ribadito a Time: analizzare la faccenda “caso per caso” e liberare chi – secondo lui? – avrebbe agito senza violenza e incriminare chi li ha condannati.
Nell’esito di questa vicenda, è passato quasi in sordina il commento di Joe Biden pubblicato ieri sul Washington Post. Il presidente ha esortato a non dimenticare quello che è successo, i veri colpevoli e le vittime. Mai scordarsi, dice Biden, che la democrazia non può essere mai data per scontata, neanche in America.
Metà degli americani sembra invece aver dimenticato come sia andata davvero. Ancora una volta, hanno vinto Trump e la sua versione dei fatti.