Figlia d’arte, nata il 3 ottobre 1858 a Vigevano in una locanda o, secondo alcuni, in un vagone di
terza classe, non aveva ancora cinque anni quando, nel marzo 1863, interpretò Cosetta dei
Miserabili di Victor Hugo, per poi diventare una leggenda del teatro: “il suo nome – sottolinea la
Treccani in una voce di Silvio d’Amico – non tanto rimane tra le gerarchie dei grandi attori, quanto
fra quelle dei sommi artisti”.
Con la compagnia dei genitori Alessandro e Angelica Cappelletto ebbe un’infanzia vagabonda e
misera, fra teatrini d’infimo ordine, in mezzo agli stenti e alla fame. Nulla faceva presagire in lei notevoli capacità, tanto che un suo capocomico la esortò a cambiare mestiere. Magra, non bella, di lineamenti irregolari e di carnagione olivastra, sembrava quasi recitare svogliata, come di creatura nauseata dalla vita.
Ma il successo arrivò a Verona nella parte di Giulietta, poi come Ofelia nell’Amleto, e nella Teresa
Raquin di Zola e si rivelò pienamente a vent’anni recitando La principessa di Bagdad di Alexandre
Dumas figlio. Cominciò quindi per lei la serie dei trionfi, durati con ritmo crescente – salvo la lunga
parentesi del suo silenzio – sino alla morte.
La sua carriera iniziò con il “naturalismo”; l’arte nuova della giovane attrice fu salutata come
stupenda “verità”, non fotografica ma così impetuosa e violenta che nei primi tempi fu tacciata
addirittura di scorrettezza: “arte, difatto, alata e potente; furibonda sensualità e passione
stragrande, con scatti e voli sino allora sconosciuti, e donde scoppiava la rivelazione d’una
personalità ribelle, che pareva effondersi in disperati aneliti verso un irraggiungibile ideale” come
scrive Silvio d’Amico nella voce della Enciclopedia Italiana Treccani.
La sua esistenza fu assai tumultuosa: la separazione dall’attore Tebaldo Checchi prima, poi diverse
esperienze passionali, trasportata dall’ardore del suo temperamento e dal suo dichiarato senso
pagano, infine la scoperta dei grandi poeti e l’incontro, devastatore, con d’Annunzio, a seguito del
quale Eleonora Duse fu conquistata alla cosiddetta religione della Bellezza e si fece banditrice del
nuovo teatro patrocinato dal poeta.
Iniziò così un periodo caratterizzato da quell’estetismo in cui l’attrice stilizzò con squisita preziosità
la sua arte, cercando di imporre il teatro dannunziano (Sogno d’un mattino di primavera, Sogno
d’un tramonto d’autunno, La città morta, La Gioconda, Francesca), ma anche ibseniano
(Rosmersholm, Casa di bambole, Hedda Gabler, La donna del mare), e maeterlinckiano (Monna
Vanna).
I suoi trionfi, presso pubblico e critica, suscitarono echi vastissimi; il nome di Duse cominciò a esser
circonfuso da un’aura di leggenda. Ma il 25 gennaio 1909, dopo una rappresentazione di La donna
del mare a Berlino, Duse si ritirò dalle scene per raccogliersi in solitudine: aveva da poco compiuto
cinquant’anni.
Nel 1920 iniziarono le trattative per il suo rientro a teatro, che si realizzò nel 1921. Dopo
una tournée italiana del 1921, la Duse formò compagnia da sola e andò in tournée a Londra e
Vienna. Imbarcatasi per gli Stati Uniti, fu colta dalla polmonite e morì a Pittsburgh il 21 aprile 1924.
Onori sovrani furono resi alla sua salma, sia in America, sia al rientro in Italia.
Attrice rivoluzionaria, alla quale negli anni Trenta il regista Rouben Mamoulian avrebbe voluto
dedicare un film interpretato da Greta Garbo rinunciandovi solo per la complessità del
personaggio, come ricorda Mario Verdone nella voce della Enciclopedia del Cinema Treccani.
Salutata fin dalla sua prima apparizione come una innovatrice, Eleonora Duse non lasciò che il
successo raggiunto arrestasse la sua evoluzione di donna e di attrice: la sua intera carriera fu
un’incessante ricerca del superamento di sé stessa. Per questo l’Istituto della Enciclopedia Italia ha
ritenuto di annoverarla tra i sommi artisti.