Se consideriamo la teoria economica come un genere letterario, essa avrà i propri sottogeneri e ogni autore avrà il proprio stile. Il ragionamento può funzionare per gli autori classici, ma funziona meno con autori più contemporanei che basano le loro teorie sul formalismo matematico: in quel caso, la letteratura cederà il passo all’espressività e all’estetica delle formule.
Un grande stilista è stato senz’altro John Maynard Keynes, la cui scrittura non aveva nulla da invidiare ai letterati del circolo di Bloomsbury, di cui faceva parte. Nella Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, scrive in modo chiaro e sistematico, ma con un inglese espressivo e pieno di sottintesi, a volte apparentemente misteriosi.
Nel quattordicesimo capitolo della Teoria generale, ad un certo punto troviamo: “L’anitra selvatica si è tuffata verso il fondo quanto più ha potuto, e si è afferrata con il becco alle alghe, alle erbacce e ai rifiuti“. Che significa? Lo si scopre per la prima volta, come ha indicato Roberto Petrini, leggendo l’apparato critico dell’opera curata per i Meridiani da un devoto studioso come Giorgio La Malfa.
È una citazione da Ibsen e dal suo dramma Anitra selvatica, utilizzata da Keynes per stigmatizzare il comportamento degli economisti marginalisti, suoi antagonisti. Nel libro si possono anche trovare riferimenti impliciti a Freud – Keynes parla di “sublimazione” e “personalità anale” – e ad Einstein. Probabilmente, senza questa forza retorica, Keynes non avrebbe esercitato un dominio così potente sulla mente dei contemporanei e dei suoi posteri.
Adam Smith, ne La ricchezza delle nazioni, adotta uno stile narrativo al limite del romanzesco. Le descrizioni dettagliate delle attività economiche del suo tempo, unite a esempi quotidiani, rendono i suoi concetti accessibili e vividi. Il filosofo morale scozzese non si limita a esporre teorie astratte ma racconta storie che illustrano i principi del mercato libero e della divisione del lavoro.
A lui si deve la metafora, universalmente abusata, della mano invisibile per descrivere i meccanismi spontanei del mercato. Allo stesso modo, Karl Marx utilizza un tono polemico e drammatico, con una prosa densa e filosofica. Le sue descrizioni della lotta di classe e dell’oppressione capitalistica sono ricche di pathos e di fervore rivoluzionario, coerenti con la sua natura intellettuale molteplice e onnivora.
Giuseppe Pontiggia, affascinato dalle contaminazioni, considerava Vilfredo Pareto un autore letterario, allo stesso modo in cui Italo Calvino riteneva Galileo il più grande scrittore italiano. Pontiggia identifica in Pareto la preminenza di quello che lui chiama il “linguaggio autoritario”, fondato sull’economicità assertiva, particolarmente dosata negli incipit, come quello del Corso di economia politica: “La scienza di cui intraprendiamo lo studio è una scienza naturale come la psicologia, la fisiologia, la chimica ecc. Come tale, non ha darci precetti; studia dapprima le proprietà naturali di certe cose e risolve poi dei problemi che consistono nel chiedersi: date certe premesse, quali saranno le conseguenze?” Minimalismo puro, e retorica al grado zero.
Dicevamo all’inizio che la letteratura deve cedere il passo alla matematica. Eppure, Deirdre N. McCloskey, in The Rhetoric of Economics, sostiene che anche un economista matematico ha bisogno di strumenti letterari: è il caso, ad esempio, di Paul Samuelson, i cui Fondamenti dell’analisi economica nel 1947 aprono la strada alla moderna economia formalizzata. McCloskey sceglie a caso due pagine e le analizza, trovandovi immancabilmente metafore e figure retoriche. E, infine, chi avesse seguito in vita sua un corso di Economia del benessere, generalmente basato su ardui concetti topologici, si sarebbe prima o poi imbattuto in dispense intitolate: L’economia di Robinson Crosue.
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