Lo scorso 5 gennaio il giornalista Raffaele Oriani, collaboratore del Venerdì di Repubblica da dodici anni, ha scritto una lettera agli oltre trecento colleghi del quotidiano nella quale annunciava l’interruzione della collaborazione con il settimanale. È, di fatto, una lettera di dimissioni dovute alla “incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa La Repubblica” che sta accompagnando la strage di Gaza.
Oriani scrive proprio strage, non guerra: “Sono novanta giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra (…) Penso che tutto questo non abbia nulla a che fare con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con la nostra tenuta etica. (…) Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di tutti noi”.
Inizialmente la lettera non sortisce effetto, ma poi, dopo il rilancio su X da parte del giornalista Paolo Mossetti, diventa virale ed esce dal perimetro degli addetti ai lavori. Forse è troppo scomodare Albert Camus e i suoi scritti politici Mi rivolto dunque siamo, però la scelta di Oriani va proprio in quella direzione, una scelta etica, soprattutto di etica civica oltre che professionale. Al momento, almeno in Italia, rimane un caso unico. Mesi dopo, Oriani pubblica un piccolo libro, Gaza, la scorta mediatica, in cui cerca di documentare le sue ragioni. Ed è qui che si entra in un altro campo di battaglia, quello del linguaggio.
Oriani parte dai dati: secondo le stime di Euro-Med Human Rights Monitor, un’agenzia indipendente di Ginevra (ma l’ordine di grandezza è confermato da quasi tutte le fonti), nei primi quattro mesi e mezzo di bombardamenti, quelli più intensi, le vittime palestinesi sono state 38.450, soprattutto civili. Di queste, almeno 8 mila sono donne, oltre 14 mila i bambini. Questa, scrive Oriani, non è una guerra, è un massacro a senso unico. Ma i media la chiamano guerra.
Non è solo un tema italiano: secondo una ricerca di Opendemocracy, nel primo mese di copertura della BBC la parola assassinio è stata usata 52 volte per le vittime israeliane, mai per le vittime palestinesi. In Italia i media seguono lo stesso schema, e Oriani riporta molti esempi. Uno è quello dell’agenzia Agi: le persone uccise da Hamas sono state “trucidate”, i palestinesi di Gaza sono, semplicemente, morti. Oriani concentra poi l’attenzione sugli editorialisti e i direttori dei grandi quotidiani, tra i quali Massimo Gramellini, Paolo Mieli, Ernesto Galli della Loggia, Mattia Feltri, Stefano Cappellini. Sono giornalisti importanti e hanno una reale influenza sull’opinione pubblica, non fanno cronaca ma commentano, e la loro autorevolezza dà forza al loro linguaggio: per Oriani, nessuno di loro riesce o vuole esplicitare quello che sta succedendo a Gaza. “Sulla tolda di Stampa, Repubblica e Corriere della Sera si può moraleggiare su tutto ma è vietato dire un semplice basta! alla carneficina dei palestinesi”, scrive Oriani che, anche in questo caso, documenta con una serie di esempi che coprono un arco di tempo di molti mesi.
Oriani non è filo-Hamas, e tanto meno antisemita, una parte del suo libro è dedicata alle voci della società civile israeliana e degli ebrei nel mondo contrarie al massacro di Gaza. Ma c’è un punto che fa da pietra angolare al libro e alle idee che esprime: è la pagina dedicata alla posizione del Foglio e di Giuliano Ferrara, che l’11 ottobre 2023, sotto l’arco di Tito a Roma, senza ipocrisia invoca a gran voce “una grande violenza combinata con capacità politica”. Oriani immagina che, tra vent’anni, un ragazzo palestinese chieda a un Ferrara molto anziano il perché di tanta violenza: “La tua famiglia è morta perché il pogrom del 7 ottobre imponeva a Israele di eliminare il nemico definitivamente. Non è più complicato di così. A qualunque prezzo? A qualunque prezzo”.