Al tema di come l’ideologia neoliberista si fosse imposta negli ultimi decenni, il sociologo Luciano Gallino aveva dedicato alcune analisi. Secondo lo studioso torinese, il soft power neoliberista si baserebbe su una rete pervasiva di cattedre universitarie e di think tank, tra i quali il Cato Institute e l’Heritage Foundation negli Stati Uniti, l’Adam Smith Institute e l’Institute of Economic Affairs in Gran Bretagna, la Mont Pelerin Society fondata in Svizzera nel 1947, le Bilderberg Conferences iniziate in Olanda nel 1952. Potrebbe essere interessante capire se anche il comitato del Nobel, che per il suo enorme prestigio può orientare le credenze globali, vada ricompreso nel soft power mercatista.
L’anno scorso, il premio per l’Economia è stato assegnato alla statunitense Claudia Goldin, per le sue ricerche sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, un tema molto contemporaneo non tanto per lo studio del gender gap, che c’è sempre stato, ma perché è solo da qualche anno che le tematiche D&I sono entrate in maniera significativa nelle prassi aziendali e nella sostenibilità.
Non può essere considerato un “premio mercatista” ma è plausibile immaginare che negli anni ’80 non sarebbe stato assegnato. D’altra parte, nel 2015 il premio era stato vinto da Angus Deaton, e buona parte dei commentatori aveva parlato di un riconoscimento contro la disuguaglianza e a favore della tutela delle minoranze. Ma il libro più famoso di Deaton, La grande fuga, era stato presentato anche come un testo che evidenziava i vantaggi del sistema capitalistico per la crescita e il progresso dell’umanità. Dire quindi se un premio Nobel sia in linea con il mainstream liberale, liberista o neoliberista o se invece sia più allineato a idee progressiste è spesso una questione di interpretazione, e di interpreti.
Joseph Stiglitz, in Rewriting the Rules of the American Economy (2016) ha individuato un nucleo di economisti premiati “non allineati”, che divergono dal modello economico standard, che lui riconduce a informazione, concorrenza, mercati di rischio e razionalità perfetti: lo stesso Stiglitz, George Akerlof e Michael Spence (informazione asimmetrica), Jean Tirole (mercati e regolamentazione), Daniel Kahneman (economia cognitiva), Oliver Williamson (governance economica), Douglas North (economia e istituzioni), John Harsanyi, John Nash e Reinhard Selten (teoria dei giochi non cooperativi), Elinor Ostrom (beni comuni). A questi si potrebbero aggiungere almeno Amartya Sen (economia del benessere), Vernon Smith (economia sperimentale), Robert Aumann e Thomas Schelling (teoria dei giochi cooperativi, Herbert Simon (processi decisionali a razionalità limitata), Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer (studio sulla povertà), Richard H. Thaler (economia comportamentale), la stessa Claudia Goldin. Sono 21 nomi, ma il Nobel per l’Economia, che esiste dal 1969, ha visto fino ad oggi 93 premiati.
È una proporzione che segnala una tendenza mercatista o neoliberista, nel senso di Gallino? Forse sì. D’altra parte, se l’inizio della fase del neoliberismo viene fatta coincidere con le elezioni di Margaret Thatcher (1977) e Ronald Reagan (1980), il decennio precedente ricade in pieno nei socialdemocratici “Trent’anni gloriosi”. Come valutare allora, rispetto allo spirito del tempo, i premiati di quei dieci anni, tra i quali ci sono personaggi come Friedrich von Hayek e Milton Friedman? Di nuovo, possiamo considerarla una questione di interpretazione e, soprattutto, di interpreti.