Joseph (Joe) Kahn è il direttore esecutivo del New York Times dal 2022, ma negli ultimi dieci ha lavorato per orientare il giornale verso lo storytelling crossmediale, rafforzandone la presenza digitale e difendendo nella newsroom una cultura inclusiva.
Figlio del co-fondatore di Staple, si è laureato ad Harvard; da reporter dalla Cina, ha vinto per due volte il Pulitzer e ha lavorato per espandere gli hubs del Times a Londra e Seoul, per avere una redazione attiva 24 ore su 24. Quando è stato nominato direttore esecutivo, il giornale gli ha dedicato un articolo che ne ritrae la storia famigliare e le caratteristiche personali: un uomo pacato, un nostalgico del modo tradizionale e “immersivo” di fare giornalismo; un professionista ambizioso e ipercerebrale, innovatore curioso e intellettuale con spiccato senso dell’umorismo, ma soprattutto quiet, quiet, quiet.
Sotto la sua direzione, il Times ha vinto altri Pulitzer, occupandosi di lavoro infantile e migrazioni (Alone and Exploited), ma anche di demenza senile e libero arbitrio (The Mother who Changed), coprendo i conflitti in Russia e Medio Oriente, ma anche i casi eclatanti come gli abusi subiti dalle madri ricoverate presso lo Yale Fertility Center. Ai lettori del Times, Kahn ha sempre chiesto impegno: una sottoscrizione, perché l’informazione di qualità costa (4$ al mese per i primi sei mesi per la versione digitale) e soprattutto la fatica di leggere articoli complessi, con linguaggi accessibili ma senza scorciatoie cognitive di alcun tipo.
Ma gestire 2000 dipendenti nel continente politicamente e culturalmente più tumultuoso e stratificato, si è fatto ancora più difficile di recente. In una conversazione lunga e spigolosa, Kahn ha raccontato al New Yorker di aver affrontato momenti critici, relativi a una “guerra culturale” in corso nel giornale. Nel 2023, Kahn ha ricevuto una lettera aperta da parte di alcuni membri dello staff, scontenti del modo in cui alcuni editoriali stessero affrontando le identità di genere non binarie e il tema del transgenderism, segnalandone alcuni bias definiti eloquenti di una posizione conservatrice; pochi mesi dopo, si è sentito dare internamente del “revisionista e razzista” per il tipo di copertura mediatica data al conflitto israelo-palestinese.
Il Times, a tutti gli effetti, sta crescendo: il 7% dei reporters americani lavora per il giornale che ha proiezione globale. Anche per questo, nell’imbarcarsi in questioni polarizzanti e sensibili, c’è un timore latente della reazione amplificata dell’Internet, che incoraggerebbe a glissare sugli esiti più problematici delle inchieste. Ma nei casi di “shitstorm”, assicura Kahn, la newsroom resta solida e compatta attorno al report esposto: un allineamento impensabile in un modello di business basato invece su collaborazioni occasionali e su un capitalismo cognitivo estrattivo. Anche a tutela dei giornalisti, il Times impone indicazioni molto stringenti rispetto alle attività politiche e filantropiche, relativamente a sé e ai propri familiari, per aggirare il sospetto del conflitto di interessi: una condizione che alcuni giovani reporters potrebbero non accettare in nome di un impegno su cause civiche che hanno a cuore.
Ma è davvero possibile essere giornalisti politicamente neutrali? La componente di soggettività è inevitabile, e si annida nell’attività del ricercatore di ogni tipo nel momento stesso in cui seleziona la storia da raccontare. Ogni giorno, il dibattito nella newsroom del Times è estenuante, dice Kahn, perché tra pratiche di yoga e aggiornamenti sulla campagna elettorale, bisogna definire la gerarchia dei contenuti: bisogna scegliere ogni giorno, insomma, cosa fa notizia e cosa è opinione, una divisione a cui il Times non intende rinunciare per criteri di viralità. A compiere queste scelte, e su ciò non ha dubbi il direttore, saranno sempre umani, così come a svolgere il lavoro di giornalista: e stando all’ultimo dibattito Trump vs Biden, questo si farà incandescente, perché la vittoria del primo sarebbe “disruptive” per la democrazia americana. Ma quindi, è davvero possibile per il giornalismo essere politicamente neutrale?