L’indomani del secondo insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca apre un orizzonte di interrogativi centrali per la tenuta e l’equilibrio del mercato statunitense dei media, tra dinamiche di potere interne fino all’altalenante atteggiamento nei confronti delle crescenti realtà esterne.
Sembra che il 2025 sia l’anno chiave per rimettere in discussione quell’assodata egemonia culturale mediatica che gli Stati Uniti esercitano sull’immaginario globale da quasi un secolo, per valutarne tenuta, rischi e prospettive.
Un’egemonia endemica
L’americacentrismo del mercato globale dei media sembra al momento un fatto assodato, quasi un metro di paragone necessario per valutare tutti quei mercati nazionali che tentano di misurarsi con una dimensione più ampia dei propri confini.
È a guida statunitense l’approccio di valutazione del Box Office audiovisivi.
Sono negli Stati Uniti gli Studios più importanti – anche sedi delle principali produzioni televisive distribuite globalmente.
È ancora d’ispirazione americana la maggior parte della musica pop mondiale.
Hanno il loro centro nella Silicon Valley alcune delle più importanti aziende leader del web, dai colossi della tecnologia ai social media più popolari.
Un eterogeneo insieme di elementi, tra cui l’ampiezza del mercato interno, un grande appeal nella creazione di contenuti e di immaginari, nonché l’utilizzo della lingua inglese, hanno permesso nell’ultimo secolo agli USA di esercitare un controllo endemico sullo sviluppo internazionale dei media – complice anche il ruolo di leadership avuta nei principali teatri politici.
È infatti impossibile in ogni contesto più o meno locale parlare di cinema d’animazione senza considerare Walt Disney, di musica tralasciando Taylor Swift o di social media ignorando Instagram.
I numeri che l’industria statunitense dei media ha saputo generare e consolidare nell’ultimo secolo ne ha fatto il generatore di forme prototipiche delle compagini di mercato, tanto da far parlare di “colonialismo mediatico” nei confronti di tutti quei territori dove l’importazione di prodotti americani ha inciso profondamente sullo sviluppo delle industrie e degli immaginari locali.
Periferie in espansione
Eppure, si assiste a un curioso effetto di ritorno che può minare la tenuta di un mercato mediale statunitense al momento non così coeso e stabile come si potrebbe immaginare.
Un effetto capace di incrinare quel suo potere coloniale apparentemente inscalfibile.
Basti pensare a come negli ultimi 10 anni l’Academy of Motion Picture Art and Sciences abbia decretato come miglior film — statunitense — per due volte il lavoro di registi messicani, una volta di un regista sudcoreano, seguito da quello di una regista cinese. E, infine, nel 2024 quello di un regista britannico, per un totale di 5 film su 10 realizzati da autori provenienti da contesti culturali esterni agli Stati Uniti.
Va poi notato come, a causa degli scioperi delle maestranze statunitensi del 2023, le piattaforme globali di streaming — a guida statunitense — abbiano necessariamente dato ampio spazio a produzioni non americane da distribuire in tutto il mondo, mettendo l’accento su mercati e immaginari dell’audiovisivo normalmente adombrati dall’egemonia americana.
Su tutti, il Giappone nell’animazione e la Corea del Sud, con interessanti ripercussioni sui cataloghi e sulla rapida evoluzione dei gusti degli spettatori.
Lo stesso discorso si può applicare al mercato musicale, dove fenomeni come il J- e il K-Pop conquistano spazi sempre più ampi e dove i contesti locali — l’Italia ne è un caso lampante — ritrovano il favore di un pubblico sempre meno ancorato al fascino delle sonorità americane.
In ultimo, il tanto discusso caso di TikTok apre un’interessante parentesi su come le nuove generazioni percepiscano la geografia dei social network, al di là delle questioni nazionali.
La fortuna del social media di ByteDance da un miliardo e mezzo di utenti non poggia sulla sua appartenenza a un qualche contesto culturale specifico, ma si alimenta di un forte effetto di viralità derivato dalla sua natura extra territoriale, tanto da aver suscitato curiosità l’ipotesi di TikTok senza creator statunitensi.
La tenuta del mercato interno
Di fronte a questa situazione periferica in felice fermento, alimentata proprio grazie alla lezione statunitense su come si costruisce un’industria dei media, il mercato interno USA si presenta come frammentato e in mano a un cosiddetto user-centrismo che rischia di minare il potenziale egemonico dell’immaginario statunitense.
Sono infatti sempre più i colossi della tecnologia — Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet e Meta, con l’aggiunta di Nvidia — a fare da pilastro portante della tenuta statunitense del mercato mediale, dando spazio a logiche basate sull’azione dell’utente e sempre meno a pratiche di costruzione degli immaginari top-down.
In questo senso lo spazio economico dei grandi studios — oggi conglomerati che operano in più settori del mercato dei media — presenta ricavi molto inferiori rispetto a chi sostiene l’intero ecosistema.
Secondo dati aggiornati a inizio 2025, il capitale di Disney di 201 miliardi di dollari è meno di un decimo di quello di Amazon, pari a 2,36 trilioni, e, sommato con gli altri due colossi dell’intrattenimento — Comcast e Warner Bros. Discovery —, supera a malapena il decimo di Apple, 3,68 trilioni di dollari.
Gli Studios sono in lotta per quote di mercato che rappresentano già una parentesi dell’ecosistema mediatico, restituendo l’immagine di una incerta solidità interna.
Su questo sfondo, la riconferma di Donald Trump alla guida del Paese non ha fatto che sancire le direzioni dell’industria statunitense dei media, in molti casi attraverso un avvicinamento alle posizioni di Trump.
L’America post-colonialista
È quindi capace il mercato statunitense di reggere alla prova di un ecosistema globale dove la propria egemonia mediatica di stampo coloniale si trova messa in discussione su tutti i fronti?
Dal punto di vista dei grandi colossi hi-tech, al momento sembra di sì.
Il potere di attori come Apple, Amazon, Alphabet e Microsoft resta solido e rafforzato dal loro ruolo di mediatori e canali di accesso tecnologici per l’intera industria.
Al contempo, sembra mantenersi stabile la tenuta contingente sul fronte dei social media dei marchi Meta, nonostante un appeal debole su nuove generazioni sempre più incisive a livello economico, tanto da rendere TikTok un interessante esempio di potenziale resa americana ai campioni del mercato cinese.
Tutto questo però non fa che indebolire uno dei pilastri storicamente più incisivi per la capillarità dell’egemonia mediale e, di fatto, culturale degli Stati Uniti su scala globale: la creazione di immaginari top-down capaci di imporsi all’estero.
L’efficacia economica dell’approccio che pone al centro l’utente come generatore del proprio ecosistema contenutistico ha eroso potere da quegli attori del mercato che ne intessevano la narrazione complessiva, per altro già indeboliti da compromessi necessari e sempre più pesanti per quanto riguarda la loro stessa sopravvivenza.
Dopotutto, la musica passa ormai tutta attraverso una piattaforma svedese, i principali festival cinematografici – che dettano legge anche per l’Academy – sono europei, le piattaforme streaming hanno trovato negli obblighi comunitari un felice alleato per superare ostacoli produttivi a casa propria, e così via.
Non sembra poi così difficile oggi immaginare un mondo dei media dove gli Stati Uniti sono una periferia come le altre, quindi non autosufficiente.