La Corte Suprema mercoledì ha respinto il ricorso dei Repubblicani che chiedevano di limitare il potere dei funzionari della Casa Bianca e altri dipendenti federali di fare pressioni sulle aziende di social media affinché rimuovano post ritenuti critici.
I governatori del Missouri e della Louisiana, oltre ad un gruppo di cittadini americani, avevano intentato una causa contro l’amministrazione Biden per violazione del Primo Emendamento avendo influenzato impropriamente le piattaforme a modificare o rimuovere post.
La sentenze dalla Corte Suprema
La Corte Suprema, con una maggioranza di sei a tre, ha respinto il ricorso presentato dai Repubblicani sostenendo nella sentenza che non si poteva dimostrare di essere stati direttamente danneggiati dalla collaborazione tra funzionari federali e piattaforme di social media.
La giudice Amy Coney Barrett ha affermato che società come Facebook e YouTube hanno politiche interne di moderazione dei contenuti ormai consolidate che etichettano post problematici e ne eliminano altri. I richiedenti, ha scritto Barrett, non hanno dimostrato che le azioni di rimozione dei post fossero attribuibili all’amministrazione Biden.
“Anche se il verbale riporta che gli amministratori del governo hanno avuto un ruolo in alcune delle scelte di moderazione delle piattaforme, le prove indicano che le aziende hanno agito in modo indipendente esercitando il proprio giudizio”, ha scritto.
Il giudice Samuel A. Alito Jr, accompagnato dai giudici Clarence Thomas e Neil M. Gorsuch, ha criticato i suoi colleghi della maggioranza per non aver affrontato adeguatamente la questione della libertà di espressione, definendo gli sforzi del governo di controllare i contenuti che ritiene problematici una forma di “coercizione”.
Una sentenza che crea un precedente
Il caso, noto come Murthy contro Missouri, ha dato alla Corte Suprema l’opportunità di definire come i funzionari governativi interagiscono con le società di social media e comunicano con gli utenti online.
Il capo ufficio stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha dichiarato che la sentenza della Corte garantisce all’amministrazione la possibilità di interagire con le società di social media e le altre aziende tecnologiche su argomenti che riguardano minacce terroristiche, campagne di disinformazione di paesi terzi, molestie online e salute mentale.
Un’occasione persa per fare chiarezza
Jameel Jaffer, direttore esecutivo del Knight First Amendment Institute alla Columbia University, ha affermato al Washington Post che i giudici hanno perso l’opportunità di dare una guida chiara alle Big Tech e al governo federale su come il Primo Emendamento dovrebbe applicarsi ai social media. Jaffer sostiene che la Corte avrebbe dovuto chiarire la linea che divide la “persuasione governativa legittima” dalla “coercizione governativa illegale”.
“I funzionari governativi opereranno in una sorta di area grigia“, ha detto Jaffer, “ci sono pericoli in entrambe le direzioni, ecco perché avevamo bisogno di una guida dalla Corte Suprema”.
La sentenza rappresenta un duro colpo per la campagna conservatrice, che da tempo sostiene la collusione del governo federale con le aziende tecnologiche al fine di censurare le opinioni repubblicane online.
Il deputato Jim Jordan (Ohio), presidente della Commissione Giudiziaria della Camera, ha affermato di non essere d’accordo con la sentenza della Corte e di avere intenzione di continuare con un’indagine interna. “Il Primo Emendamento è primo per una ragione, e la libertà di espressione dovrebbe essere protetta da qualsiasi violazione da parte del governo“, ha detto Jordan in una dichiarazione. “Il nostro lavoro continuerà”.
La questione della libertà d’espressione e della regolamentazione dei social media continuerà a essere un tema caldo nel panorama politico americano. Per ora, la Corte Suprema ha deciso di lasciare la gestione dei contenuti online nelle mani delle piattaforme stesse e dell’amministrazione in carica, almeno fino al prossimo contenzioso.
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