Nei primi 100 giorni della sua precedente amministrazione, Donald Trump ha ridefinito a ribasso il livello minimo di approvazione che un presidente degli Stati Uniti può suscitare nei confronti della stampa. Questa volta, la situazione potrebbe essere diversa.
In media, il tono delle notizie riguardanti il presidente nei 100 giorni iniziali del suo primo mandato era stato negativo nell’80% dei casi.
A eccezione delle scelte in ambito economico, che avevano diviso a metà le opinioni delle testate, i quotidiani e le televisioni statunitensi avevano bocciato pressoché all’unisono le posizioni di Trump in tutti gli altri campi, dall’immigrazione e la sanità pubblica, fino alle sue nomine governative e la possibile interferenza russa nelle elezioni del 2016.
Lo scrive Thomas Patterson, professore dell’Harvard Kennedy School, in una sua ricerca, pubblicata a maggio del 2017.
Patterson aveva analizzato le notizie pubblicate dai tre maggiori quotidiani statunitensi – New York Times, Wall Street Journal e Washington Post – i programmi di punta di quattro importanti emittenti televisive – Cbs Evening News, The Situation Room della Cnn, Special Report della Fox e Nbc Nightly News – e tre testate europee di rilievo, il Financial Times, la Bbc e il servizio pubblico tedesco Ard.
Trump non era soltanto criticato, ma era anche onnipresente sui giornali e in tv.
Di solito, scrive Patterson, le notizie sul presidente occupano un ottavo del palinsesto televisivo nazionale – il 12,5%. Con Trump, questa percentuale è salita al 41%.
Prendendo in considerazione le notizie a lui dedicate, due volte su tre queste riportavano virgolettati attribuiti al presidente stesso, mentre le dichiarazioni del suo portavoce e dei colleghi di partito avevano ricevuto una copertura marginale.
Dunque, a Trump erano stati dedicati un’attenzione e un livello di critiche mai visti prima.
È tempo di chiedersi se queste due caratteristiche saranno confermate anche nei primi 100 giorni del suo secondo governo.
Entrino i nuovi
Il contrappeso del quarto potere oggi è minato da una serie di condizioni sfavorevoli.
L’astio di Trump nei confronti dei giornali potrebbe non limitarsi soltanto alle solite parole di disprezzo, diventate prassi nel suo linguaggio. Non fa più notizia ascoltare una volta in più che, secondo il presidente, “la stampa è il nemico del popolo”.
A preoccupare è la combinazione fra la debolezza mostrata dalle testate tradizionali negli ultimi mesi e la contemporanea crescita dei nuovi canali di informazione. Questi, insieme ai social media – in particolare dopo il cambio di rotta di Meta – sono allineati a Trump.
Il presidente potrebbe sfruttare questa congiuntura in diversi modi.
Il primo, riguarda la composizione della James Brady press briefing room, la sala stampa della Casa Bianca. Trump potrebbe riprovare, stavolta in maniera sistematica, a sostituire alcuni inviati di testate ritenute troppo critiche nei suoi confronti con voci di podcast e influencer a lui vicini.
Joe Rogan, Charlie Kirk e gli youtuber Nelk Boys sono solo alcuni esempi. Sempre che abbiano voglia – di certo, non bisogno – di partecipare agli appuntamenti alla Casa Bianca.
Se la White House Correspondent Association – l’organizzazione che garantisce la presenza fissa dei giornalisti delle 49 maggiori testate nazionali e internazionali – si mettesse di traverso, l’amministrazione potrebbe provare a spostare le conferenze e gli incontri in una sala più grande.
Anche questa, è un’idea già emersa durante il primo mandato di Trump.
La maggioranza rumorosa
Oltre all’esercito mediatico costruito dalla destra americana, Trump può contare sull’appoggio – più esplicito che non – di tutti i maggiori social media.
Il supporto di Elon Musk, sia a livello economico, sia tramite X – dove durante la campagna elettorale ha limitato la diffusione dei contenuti favorevoli ai democratici e favorito le opinioni dei conservatori – è noto da tempo.
Più recente è invece la svolta di Mark Zuckerberg a favore di una fantomatica libertà di espressione contro la “censura” degli algoritmi dei social media di Meta.
Lo smantellamento del programma di fact-checking indipendente di Facebook, Instagram e, ora, anche Threads, favorirà la diffusione indiscriminata di contenuti falsi e complottisti. Molti dei quali condivisi dai sostenitori di Trump.
A farne le spese saranno i giornali, la cui già ridotta credibilità sarà messa ancora di più in discussione dalla proliferazione di centinaia di verità alternative.
Contro una stampa in difficoltà
Dall’altra parte della barricata, a difendere il ruolo dei mezzi di informazione ci sono redattori alle prese con improvvisi cambi alla direzione e pesanti ingerenze alla linea editoriale da parte delle proprietà.
Molti editori vogliono riallacciare il rapporto con Trump ed evitare di inasprire o riaprire conflitti passati.
Nel 2017, le notizie relative al governo pubblicate nei primi 100 giorni dell’amministrazione Trump dal Washington Post e dalla Cnn risultavano critiche rispettivamente nell’83% e nel 93% dei casi.
In quell’anno, dopo l’insediamento di Trump, il quotidiano della capitale ha adottato lo slogan “la democrazia muore nell’oscurità”, per sottolineare il suo ruolo di controllo del potere.
Otto anni dopo, il Washington Post ha rivelato la sua nuova missione in concomitanza del nuovo insediamento del presidente repubblicano: creare una “narrazione avvinante per tutta l’America”.
Da un anno, la redazione del Washington Post sta vivendo un esodo di alcuni nomi di punta anche e ha difficoltà a nominare il suo nuovo direttore, anche a causa delle scelte editoriali volute dal proprietario Jeff Bezos e dall’amministratore delegato Will Lewis.
Bezos ha interrotto il tradizionale appoggio del giornale a un candidato alla presidenza – in questo caso, Kamala Harris.
Qualcosa di simile a quanto accaduto al Los Angeles Times, che, a seguito del divieto del suo proprietario Patrick Soon-Shiong, ha dovuto cestinare la dichiarazione di supporto a Harris e ha bloccato la pubblicazione di un editoriale critico verso le nomine di Trump.
Mark Thompson, a capo della Cnn, ha deciso di spostare il programma di Jim Acosta, uno dei più seguiti della rete, dalle 10 di sera a mezzanotte.
Il conduttore è una delle voci più critiche di Trump all’interno della testata ed è probabile che all’emittente “vogliano liberarsi di Acosta per fare un favore a Trump”, ha detto un dirigente a conoscenza della situazione a Status.
I presentatori della trasmissione Morning Joe della Msnbc Mika Brzezinski e Joe Scarborough, noti per non essere teneri nei confronti del presidente, hanno deciso di andare a Mar-a-Lago, in Florida, per incontrarlo.
Dopo anni in cui il duo ha evitato qualsiasi discussione diretta, “abbiamo capito che era il momento di fare qualcosa di diverso”, hanno detto. Il che significa “non solo parlare di Donald Trump, ma anche parlare con lui”, per “restaurare la comunicazione” fra le parti.
Sono solo alcuni esempi di un più vasto processo di cambiamenti che sta interessando i piani alti delle testate.
Il Wall Street Journal ha annunciato il suo nuovo capo corrispondente da Washington, Damian Paletta. Rashida Jones, presidente di Msnbc, sta lasciando l’incarico, C-Span ha nominato il suo nuovo ad, Sam Feist, e Politico ha deciso di cambiare il giornalista che si occupa della famosa newsletter Playbook, scegliendo il giornalista Jack Blanchard.
I giornali e le emittenti provano a cambiare per mantenere il loro ruolo preminente, ma la realtà dei fatti, ha detto all’Associated Press l’ad di Axios Jim VandeHei, è che ormai “non sono gli attori più importanti nel panorama dell’informazione”.
Le grandi estate non hanno più il controllo sull’informazione e, per adattarsi a un contesto in cui la loro fragilità si somma all’aggressività del governo, “hanno iniziato a piegarsi al Trump 2.0 ancora prima del suo insediamento”, sostiene Adam Penenberg, professore e direttore del master in giornalismo della New York University. “Sembrano disposti a sacrificare l’integrità per il profitto e la protezione”.
Minacce poco velate
L’atteggiamento remissivo dei media sembra manifestarsi in due maniere.
Da un lato, i giornali pagano il sempre minore supporto dei social media nel veicolare il traffico esterno ai loro siti.
Li ha rimpiazzati Google, che, attraverso la sua funzione Discover, porta un quarto del traffico complessivo verso le homepage delle testate.
La conseguenza di questo cambiamento è che l’algoritmo di Discover predilige i contenuti originali e leggeri, spingendo così i giornali a sacrificare le notizie politiche con argomenti ben meno divisivi.
Tradotto, gli americani vogliono altro – o, almeno, questo dice Google. Meno critiche a Trump, più consigli di lifestyle.
A questo deterrente se ne aggiunge un altro direttamente collegato alla nuova amministrazione e legato alle cause legali intentate dal presidente e agli accordi economici fra editori.
Semafor ne sottolinea gli effetti. La Cbs sta provando a trovare un accordo con Trump dopo che il presidente li ha citati in tribunale chiedendo dieci miliardi di dollari per danni.
Il motivo, secondo i legali, è la decisione dell’emittente di mandare in onda una versione tagliata dell’intervista a Kamala Harris al programma 60 Minutes per migliorarne l’immagine.
La rete vuole chiudere la questione anche perché la sua proprietaria, Paramount, sta ultimando la fusione con Skydance di David Ellison, il figlio del cofondatore di Oracle, Larry.
Le parti temono che la nuova amministrazione possa vendicarsi facendo pressione sul capo della Commissione federale per le comunicazioni per complicare la situazione e, potenzialmente, bloccare l’accordo.
Diverse altre volte Trump ha denunciato testate o singoli giornalisti.
Un esempio recente è l’accusa mossa al conduttore di Abc News George Staphanopoulos, il quale ha affermato che il presidente era stato “condannato per stupro” della giornalista E. Jean Carroll.
Trump è stato condannato per abuso sessuale, non per stupro, due reati giudicati in modo diverso negli Stati Uniti. Per evitare di andare a processo per diffamazione, l’emittente ha accettato di pagare 15 milioni di dollari.
In questo contesto complicato per il settore dell’informazione, è difficile pensare che fra 100 giorni si avrà un quadro simile a quello che, nel maggio del 2017, aveva fotografato Patterson nel suo studio.
Eppure, molti giornalisti hanno ribadito di volere continuare a fare il proprio lavoro senza paura, in modo schietto e oggettivo.
Una dimostrazione l’ha data Kristen Welker di Nbc News, la prima persona a intervistare Trump dopo la vittoria alle elezioni dello scorso novembre.
La giornalista lo ha corretto in alcune affermazioni fantasiose, provocando la reazione del presidente, che l’ha accusata di avergli fatto domande molto più scomode di quelle che aveva fatto a Joe Biden.
“Non ho mai intervistato il presidente Biden”, gli ha risposto Welker.