Le pubblicità dei brand su YouTube potrebbero comparire su qualsiasi contenuto, anche sui video di notizie infondate. Ma in tal caso quale sarebbe l’impatto per un brand?
Su YouTube, un annuncio dell’azienda automobilistica Mazda è apparso prima di un video che ripeteva la falsa convinzione razzista secondo cui i migranti haitiani in Ohio “mangiavano anatre sul ciglio della strada“. Un annuncio di Adobe è invece apparso accanto a un altro video che sosteneva che “i residenti di Springfield hanno visto i loro animali domestici rapiti e mangiati da persone che non dovrebbero nemmeno trovarsi in questo Paese“. Persino un annuncio della vicepresidente Kamala Harris, candidata democratica alla presidenza, è stato posizionato all’inizio di un video secondo cui i migranti “andavano nei parchi, catturavano le anatre, tagliavano loro la testa e le mangiavano“.
È da anni che molti inserzionisti cercano di evitare di apparire accanto a contenuti divisivi e politici, per paura di danneggiare la percezione che il pubblico ha del brand. Ma il fatto che questi annunci siano apparsi su YouTube accanto alle fake news sugli immigrati haitiani dimostra le difficoltà che si riscontrano nel proteggere l’immagine del brand online, soprattutto nel periodo delicato delle elezioni presidenziali.
YouTube e le inserzioni (mal) posizionate automaticamente
YouTube ha bannato o temporaneamente limitato diversi account dopo l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, incluso il profilo dell’ex presidente Donald Trump. Tuttavia, la piattaforma sembra aver parzialmente ritirato alcune di queste restrizioni dal 2023, quando ha ripristinato l’account del tycoon e ha annullato il divieto di pubblicare contenuti falsi riguardo alle elezioni del 2020. Infatti, la piattaforma video continua a ospitare vari commentatori di destra noti per la diffusione di disinformazione ed è stata inoltre accusata di trarre profitto da video che presentano il cambiamento climatico come una bufala o un’esagerazione.
Dopo la dichiarazione dell’ex presidente Donald Trump sugli immigrati haitiani, durante il dibattito presidenziale del 10 settembre, i video su YouTube che hanno commentato la vicenda hanno ottenuto quasi 1,6 milioni di visualizzazioni in 72 ore, favorendo di conseguenza anche gli annunci pubblicitari associati.
Gli inserzionisti, affidandosi agli algoritmi che posizionano automaticamente gli annunci su YouTube e su altri siti web, rischiano quindi di finanziare involontariamente la disinformazione.
Secondo un portavoce di YouTube, se i video violano le linee guida per gli inserzionisti o altre politiche della piattaforma, non sono monetizzabili. Inoltre, se da un la piattaforma si sta muovendo per monitorare altri contenuti e rimuoverli, dall’altro sottolinea che le aziende possono bloccare la comparsa dei loro annunci accanto ad alcuni creator, in relazione a determinati siti web o in caso di “contenuti sensibili” come disastri ambientali o scene di guerra.
Nonostante queste iniziative, il sentiment di molti dirigenti pubblicitari è che YouTube e altre piattaforme non stanno facendo abbastanza per proteggere i brand dai contenuti dannosi.
Non solo YouTube
YouTube non è l’unica piattaforma online che ha suscitato preoccupazioni tra gli inserzionisti per la qualità dei contenuti. Nel 2020, più di 1.000 inserzionisti hanno aderito pubblicamente a un boicottaggio di Facebook organizzato da alcuni gruppi per i diritti civili, protestando contro la gestione della piattaforma riguardo ai discorsi di odio e di disinformazione. Inoltre, centinaia di inserzionisti hanno lasciato X (ex Twitter) lo scorso anno per le stesse motivazioni.
Secondo Claire Atkin, co-fondatrice di “Check My Ads”, centro di ricerca sulla pubblicità online, durante questa stagione elettorale le piattaforme online sono invase dalle teorie del complotto, false narrazioni e disinformazione: “Stiamo affrontando un disordine informativo e gli inserzionisti non possono fidarsi di questo sistema”.
Una ricerca pubblicata a giugno sulla rivista Nature dai ricercatori delle università di Stanford e Carnegie Mellon, ha evidenziato che le inserzioni delle aziende che utilizzano piattaforme di pubblicità digitale hanno dieci volte più probabilità di apparire sui siti di disinformazione rispetto a quelle che non le utilizzano; non a caso, quasi l’80% dei principali inserzionisti attivi dal 2019 al 2021 hanno riscontrato questo problema.
Oggi, la maggioranza dei responsabili marketing è in allerta, poiché le crescenti tensioni politiche rendono i consumatori particolarmente sensibili a come i brand affrontano i temi divisivi, per cui è nell’interesse delle aziende apparire associate a contenuti adatti nello spazio digitale.