
Nella rapida continuità del mondo digitale, la fine di una tendenza sfuma inevitabilmente nell’inizio di una successiva.
Non si è fatto in tempo a metabolizzare l’ondata di immagini generate dall’intelligenza artificiale a tema Studio Ghibli che già questa ha lasciato spazio a fiumi di giocattoli che riempiono gli “scaffali social” di moltissimi utenti.
Si tratta solo di due delle ultime mode di utilizzo dei sistemi di IA generativa — in questi casi ChatGpt di OpenAI — che hanno portato ad ondate virali di immagini e che sollevano interrogativi di natura etica, normativa e, fondamentalmente, sociologica.
Se infatti è vero che queste ondate non sono, formalmente, differenti da ogni altra moda digitale — specialmente quando si parla di immagini — le conseguenze della loro estrema diffusione aprono scenari quantomeno sensibili.
Al fondo di questi scenari ci sono però tendenze ricorsive che diventano il minimo comune denominatore di pratiche web solo in apparenza disruptive, eppure sempre integrate in un vasto scenario dell’agire digitale.

Hayao Miyazaki, regista, sceneggiatore e animatore, fondatore nel 1985 dello Studio Ghibli a Tokyo. Foto: Wikimedia Commons.
Il mio vicino (è) Totoro
Non è difficile capire le ragioni del successo del trend a tema Studio Ghibli: l’appeal dell’immaginario a firma Hayao Miyazaki e Isao Takahata è stato sancito ben prima dell’ondata di immagini artificiali fai da te.
La vittoria agli Oscar 2024 de Il Ragazzo e l’Airone di Miyazaki arrivava infatti in coda ad anni di rilancio in sala dei film dello studio, nonché alla reiterata presenza delle pellicole nei cataloghi delle principali piattaforme streaming, che li hanno resi già nutrimento per culture algoritmiche.
Le storie dello Studio Ghibli sono uno dei pilastri della cultura condivisa millennial e quindi sono state più volte fonte di appropriazione, remix e adattamento.
La differenza qui sta nella rapidità e nella facilità con cui ChatGpt ha permesso di trasformare foto degli utenti in illustrazioni, entrando in conflitto con la narrazione dello Studio che ha sempre sottolineato l’estrema cura, l’impegno e la mole di lavoro che c’è dietro ogni fotogramma dei propri film.
Non si vuole qui riaprire la questione dell’utilizzo dello “stile Miyazaki” per rappresentazioni violente e sensibili, pratica comunque disturbante e stigmatizzata da OpenAI, ma per sottolineare come gli Stati Uniti sembrino impreparati a certe frizioni etiche e legali che le appropriazioni di massa sono in grado di sollevare.
A parte rare eccezioni, è molto difficile che si creino controversie legali quando uno o più utenti si appropriano di stili visivi ben riconoscibili per realizzare contenuti poi condivisi sui social.
Pinterest, Instagram e X sono pieni di fan-art di natura eterogenea che, rientrando sotto l’ombrello del fair use, creano circoli virtuosi di discorsività che nutrono gli immaginari attraverso la possibilità data agli utenti di abitarli attivamente.
Il caso delle immagini in stile Studio Ghibli si discosta però per due particolarità: la massificazione estrema — con tutte le storture che essa comporta — e la peculiarità dell’autore a cui l’immaginario fa riferimento.
La massificazione mette alla prova l’elasticità del fair use, allarmando i detentori di proprietà intellettuali e ponendo il punto interrogativo su pratiche individuali che, se diffuse su larga scala, possono mettere in pericolo la tenuta economica di intere filiere commerciali.
Oggi sono illustrazioni — e difatti grafici, illustratori e fumettisti sono da tempo in prima linea per contrastare questi usi massivi, ma con lo sviluppo e la diffusione dei sistemi di stampa 3D possono diventare quei prodotti correlati che fanno proliferare mercati ancillari ma vastissimi.
Come, appunto, quello delle action figure.
Il fatto che tutto questo sia capitato con i lavori di Miyazaki pone l’attenzione sulla normativa statunitense sul diritto d’autore, che sottovaluta l’importanza — centrale nel sistema normativo europeo — della paternità dell’opera.
Il maestro dell’animazione giapponese ha infatti più volte sottolineato il suo disgusto nei confronti della pratica di appropriazione automatica dei suoi immaginari.
Eppure, la poca centralità che la componente morale occupa nella normativa del diritto d’autore statunitense fa sì che OpenAI possa spingere per allargare i confini del fair use al di là delle indignazioni di chi ha creato gli immaginari saccheggiati.

Il Ghibli Museum a Mitaka, nella conurbazione di Tokyo. Foto: Canva.
Impacchettati ed esposti
Il dibattito intorno all’uso più o meno lecito dell’immaginario Ghibli non ha fatto in tempo a decantare che il trend ha lasciato spazio a feed pieni di pupazzetti accessoriati e impacchettati.
Sicuramente più innocue dal punto di vista legale — almeno finché si agisce sulla propria immagine — queste action figure realizzate con le fattezze di chi si vuole evocano nuove forme di inquietudine, al di là dell’effetto perturbante che suscitano a un primo sguardo.
Innanzitutto c’è l’oggettivazione del corpo, trasformato in giocattolo e avvolto in una confezione di plastica, con tutto il portato di omogeneizzazione delle forme e delle proporzioni fisiche che questo comporta.
Perché a fronte di un impressionante dettaglio nei connotati del viso, questi sé giocattolo poggiano su forme corporali semplificate e semplificanti, come accade con i Fuko Pop, che però vogliono rappresentare il personaggio e non la persona.
Proprio questa semplificazione si riflette negli accessori inclusi nella confezione: una manciata di oggetti che si sceglie rappresentino la personalità dell’impacchettato, in una simbolizzazione in forma di correlativo oggettivo di interessi, professioni e passioni.
Va chiarito che anche questa tendenza non inventa niente di nuovo: già da anni Lego permette di comporre Minifigure personalizzati in blister da tre e non va dimenticato quanti cosplayer si sono “inscatolati” durante l’onda lunga del successo di Barbie di Greta Gerwig.
La differenza qui è che per far produrre a ChatGpt l’action figure virtuale da esporre sui propri profili social, gli si regala una foto a figura intera accostata ad un insieme di potenziali tag — gli interessi riconducibili agli accessori — che in automatico diventano una profilazione superficiale e manifesta.

Foto: Unsplash.
Tratti in comune e prospettive future
Andando al fondo di questi ultimi trend iconografici nati dall’utilizzo massivo dei sistemi di IA generativa, sono almeno due gli elementi in comune che mostrano una qualche forma di continuità.
Da un lato, l’inesauribile mercato del nostalgico eternamente riattualizzato dimostra ancora il suo potenziale discorsivo.
Tanto gli immaginari di Miyazaki quanto le iconiche action figure in blister richiamano quell’idea di passato mai vissuto che è diventato il gancio fondamentale dei prodotti per millennial.
C’è una sorta di piacevole frizione iconografica nell’utilizzare sistemi contemporanei — come l’IA — per realizzare oggetti visivi che si rifanno al passato. Questi trend non sono che naturali seguiti dei falsi trailer in stile anni ’50 o ’70 che riempiono tanti feed di YouTube, Instagram e TikTok.
L’altro elemento che viene fuori da questa continuità di tendenze è una sorta di tensione referenziale.
Di fronte a sistemi di generazione di immagini che negano qualsiasi possibile “firma autoriale” riconoscibile, si tende a porre la propria immagine al centro della trasformazione digitale quasi a voler evidenziare che la componente umana è la propria.
Se da un lato è facile vederci semplicemente la nuova versione di un selfie dal linguaggio grafico omologato — come fu al suo tempo l’uso di Retrica e tendenze simili — il fatto che vi sia un ricorrente bisogno di porsi al centro dell’oggetto digitale — che sia per farsi cartone animato o pupazzetto accessoriato — sembra denunciare la volontà di dirsi comunque impulsi creativi.
Non è semplice prevedere quale trend andrà a sostituirsi alla già satura moda delle action figure, ma si può ipotizzare che vedrà ancora la concomitanza degli elementi appena descritti.
L’economia della nostalgia è lontana dall’esaurirsi e ancora deve vedere una traduzione massiva su forme mediali più elaborate della semplice immagine.
Inoltre, la necessità del mostrarsi al centro del proprio giocare con l’IA, in un infantile ritorno alla personalizzazione della scoperta del nuovo, resterà per molto tempo la modalità principale della massificazione di questi sistemi.
La sfida, soprattutto per chi commenta, osserva e norma queste pratiche, non è tanto quella di anticipare su cosa esse si concentreranno, ma è quella di riuscire a tener aperti i discorsi sulle criticità che queste pratiche sollevano senza che il loro sfumare li cancelli come mode passeggere.