Lo scorso giugno, la responsabile della D&I di Condé Nast, Yashica Olden, ha rassegnato le dimissioni a seguito di tensioni interne riguardanti accuse di antisemitismo e dibattiti sulla guerra a Gaza. Questi sviluppi all’interno del gruppo editoriale, che pubblica testate come The New Yorker, Vogue, Wired, GQ e Vanity Fair, riflettono le tensioni che stanno coinvolgendo anche altre società di media, come CBS. Si tratta di divergenze che rispecchiano una divisione generazionale, ideologica e, a volte, etnica.
Chi è Yashica Olden
A settembre 2020, Condé Nast ha assunto per la prima volta una responsabile della diversity. Yashica Olden, con un importante curriculum in ambito D&I, era diventata la dipendente non bianca più in alto nella gerarchia aziendale. Ma al termine del suo mandato da Condé Nast, si è trovata al centro di accuse di discriminazione.
Le denunce sono nate dopo il violento attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Alcuni dipendenti ebrei e filoisraeliani del grande editorie americano erano infastiditi per la copertura mediatica della guerra, in particolare erano contrari a ciò che percepivano come attivismo anti-israeliano e alle esternazioni di alcuni dipendenti, come la partecipazione a proteste pro-palestinesi.
Inoltre, sostenevano che i dipendenti ebrei meritassero le proprie tutele aziendali, simili a quelle previste per altri gruppi minoritari all’interno dell’azienda. Hanno quindi proposto l’idea a Olden, che ha detto che l’azienda l’avrebbe sostenuta, purché ci fossero gruppi simili per tutte le religioni, compresi i dipendenti musulmani. In risposta, i dipendenti ebrei hanno presentato un reclamo formale accusandola di antisemitismo.
La questione è rimasta in sospeso per tutta la durata del mandato di Olden, fino alla sua uscita dall’organizzazione a giugno.
Per le aziende è meglio esporsi o rimanere in silenzio?
A seguito dell’attacco del 7 ottobre, i vertici delle media company hanno discusso se fare dichiarazioni pubbliche o meno.
L’allora Chief Revenue Officer Pamela Drucker Mann sosteneva che Condé dovesse fare una dichiarazione, poiché i dipendenti lo richiedevano; tuttavia, non tutti ne erano convinti, preoccupati delle possibili ripercussioni.
Alla fine, il colosso editoriale è stato una delle poche media company a condannare esplicitamente Hamas, ma alcuni dipendenti dell’editore hanno riferito al New York Post che la dichiarazione non era abbastanza esplicita, poiché il messaggio principale era “entrambe le parti stanno soffrendo”.
Secondo gli esperti, le notizie sulla guerra hanno permeato così tanto il panorama mediatico a tal punto che anche i tentativi di evitare le controversie hanno avuto l’effetto opposto. Per esempio, le decisioni di Vogue e Vanity Fair di rimuovere le bandiere palestinesi dalle foto delle celebrità hanno causato malumori tra gli stessi protagonisti.
Teen Vogue al centro dei conflitti di Condé Nast
Dal 2016, Teen Vogue non ha nascosto le sue posizioni progressiste, anche in virtù del giovane pubblico a cui si rivolge.
Con l’intensificarsi della guerra dopo il 7 ottobre, la testata ha diffuso articoli che evidenziano l’impatto delle azioni militari sui civili palestinesi a Gaza e su come il conflitto si riflettesse nella campagna presidenziale americana. Ha raccontato la repressione delle proteste anti-israeliane nei campus universitari statunitensi, così come le celebrità che hanno espresso sostegno ai palestinesi o hanno chiesto un cessate il fuoco generale.
L’orientamento pro-palestinese di Teen Vogue ha infastidito particolarmente la parte del business di talent management di Condé Nast, che ha criticato alcuni articoli della rivista, sostenendo che stava danneggiando i rapporti con le celebrità.
A inizio anno, infatti, il direttore dell’entertainment di Vogue, Sergio Kletnoy, ha inviato un’e-mail a Wintour, al CEO Roger Lynch e a Duncan, criticando duramente gli articoli di Teen Vogue su Gaza.
A febbraio, Siri Garber, presidente dell’agenzia di PR hollywoodiana Platform Public Relations, che rappresenta le celebrità apparse su Teen Vogue, ha inviato una lettera a Condé Nast criticando la copertura della rivista: “All’interno dell’industria, c’è una crescente preoccupazione, condivisa da molti che sentono che Teen Vogue, una delle testate più influenti per le giovani generazioni, abbia completamente eliminato la rappresentanza ebraica nei suoi articoli“.
La rivista ha anche causato l’opposizione del Content Integrity Group dell’azienda, che si occupa di verificare i fatti citati negli articoli. Il dipartimento ha contestato l’uso delle parole “apartheid” e “genocidio“, e in diverse occasioni ha trattenuto la pubblicazione di alcuni articoli sulla guerra, ritenendo che il linguaggio fosse troppo orientato contro Israele.
Le media company in difficoltà tra attualità e politiche D&I
Secondo il giornalista di Semafor Max Tani, i conflitti interni di Condé Nast riguardo a Gaza riflettono le tensioni che la scorsa settimana si sono manifestate pubblicamente presso CBS News. La rete televisiva è stata coinvolta in una controversia interna che ha coinvolto la presidente non esecutiva (in uscita) della rete, Shari Redstone, dopo un’intervista tra il conduttore di CBS Mornings, Tony Dokoupil e Ta-Nehisi Coates, riguardo al suo nuovo libro su Israele e Palestina, che ha dato vita a un dibattito sulla copertura editoriale della guerra.
Coates è uno dei giornalisti e intellettuali pubblici più noti del XXI secolo e la sua scrittura provocatoria sulla razza ha contribuito a gettare le basi per il confronto sulle disuguaglianze razziali negli Stati Uniti avvenuto nel 2020.
Secondo Tani, l’incidente alla CBS riguarda una frattura ideologica che si è manifestata anche presso Condé Nast: una rottura tra i dipendenti non bianchi (che hanno espresso sostegno per i palestinesi) e tra i dipendenti bianchi di origine ebraica (che si sono opposti).
La guerra a Gaza ha messo alla prova alcuni dei sistemi nati dopo l’omicidio di George Floyd nel 2020. Quell’anno, Condé aveva creato un sistema anonimo per segnalare comportamenti scorretti sul posto di lavoro. Ma ultimamente questo sistema ha preso una direzione diversa: spesso, viene usato per accusare di antisemitismo i dipendenti, in particolare i dipendenti non bianchi, che hanno espresso simpatia per i palestinesi.