Sfoglio Playmen, un numero del 1966. Tra un’intervista a Patroni Griffi e un corpo nudo, imperversa la propaganda dei partiti. Ci sono tutti, dalla DC al PCI, dal PLI al PSI, le falci gli scudi le foglie, e i ritratti simbolici di famiglie, bambine e bambini, lavoratrici e lavoratori, accompagnati da slogan del tipo “Usciremo dalla crisi economica” e “Vuoi assicurare a loro un futuro?”. Nemmeno l’ombra di un candidato.
Me è proprio in quegli anni che va rintracciata l’origine dell’esasperato personalismo della propaganda politica che conosciamo oggi e che non si può comprendere a fondo se non come fenomeno storico, in una spirale concausale di fenomeni culturali, sociali e dell’ecosistema mediatico.
Parlare di “modernità” è sempre rischioso, figurarsi aggiungere un “post-” a questa categoria. È utile riprendere Blumler e Kavanagh, che propongono uno schema tripartito per la comunicazione occidentale dell’ultimo secolo: la fase pre-moderna, in cui i partiti avevano ancora capacità di aggregare e orientare, con le ideologie, le opinioni dell’elettorale (il “voto di appartenenza”); la fase moderna, che coincide con l’ingresso massiccio della televisione e in cui propriamente sorgono personalizzazione e la semplificazione della comunicazione politica che diventa sempre più pop, spettacolo e infotainment; infine, la fase post-moderna, che è quella che stiamo vivendo.
Storia della comunicazione politica in Italia
Tra i Settanta e gli Ottanta, l’Italia tardivamente giunge allo sviluppo industriale e alla crescita economica, e può dire di aver completato quella transizione. Questo non accade senza un obolo da pagare, in termini di ethos, di un “nuovo spirito” che accompagna l’italiano moderno. Lo spot politico a pagamento, che all’inizio è un’intuizione di Eisenhower, arriva da noi solo nel 1979, con le note elezioni di giugno europee.
Le trasmissioni televisive autogestite, anche quelle ispirate dal party broadcast anglosassone, concretizzano lo spirito dell’italiano medio che guarda sé stesso riflesso nel palinsesto televisivo: le tribune politiche, a volte superbi esempi di contraddittorio ed esercizio retorico, consentono ai segretari di partito di penetrare in modo sempre crescente nelle case, e nella quotidianità, degli spettatori-elettori.
Marco Pannella, come rileva accuratamente Guido Crainz, aveva già cominciato a dissacrare gli spazi televisivi innovando la comunicazione politica attraverso la presenza-video, rendendo i comizi potenzialmente trasmissibili in diretta e contemporaneamente.
L’era del disincanto politico
Ma il disincanto è crescente: il referendum del 1978 conferma le paure berlingueriane dell’anno prima, quando il leader piccino aveva fatto ricorso a una “chiamata alle armi” di tutti gli intellettuali e artisti a cui richiedere, nuovamente, la militanza tramite i linguaggi propagandistici più diversi, perché l’emorragia di voti era già cominciata.
Gli italiani non sono più disposti a finanziare i partiti, da lì a poco il caso Moro avrebbe costituito una cesura netta, e nefasta, con un lungo calvario condiviso ed espanso mediaticamente: il “groviglio degli anni ottanta” stava per cominciare.
Il miracolo economico non era stato adeguatamente governato, quella maturità era stata precoce, dice Gervasoni, e aveva posto le basi per la crisi del politico.
La politica, incapace di fornire risposte, cominciava ad assecondare il flusso e a farsi spettacolo: nel vuoto delle proposte di riforma, si innalzava l’altare del particolarismo individualistico, cercando una parvenza di normalità nella voce, nelle promesse, nella faccia rassicurante del leader. Il “panpoliticismo” sessantottino aveva fatto il suo corso, la repubblica partitocratica era un modello stanco e svuotato di consenso, a cui si poteva sopperire – per assicurare la governabilità – con il leaderismo.
Pertini, il comunicatore anti protocollo
Sandro Pertini, con le sue chiacchierate al caminetto di rooseveltiana memoria, poteva fare uso del nuovo medium onnipresente, farsi padre (ma anche “nonno”, dentro una simbologia ricorsiva di questo paese) della patria allo sbando, nell’età del narcisismo: scrive Lasch che il successo non dipende più dalle qualità personali, ma dal riconoscimento pubblico.
Pertini cominciava a rompere i protocolli del canone istituzionale, la verità dell’imprevisto, una lezione immediatamente appresa da Bettino Craxi, che nel latente bisogno di comunità si insinua come decisore.
La comunicazione politica recepisce l’idolatria del benessere e l’estetica manieristica degli spot televisivi che inneggiano al benessere, sul modello dei mall americani; i tycoon (Donald Trump tra questi) e gli yuppie diventano un modello a cui ambire, e Craxi si rivolge a quei giovani rampanti chiedendo loro di votare il partito del Garofano, e facendo appelli personali sull’altare della televisione commerciale.
Il Psi arriva a elaborare una politica post-moderna (ci siamo cascati!) di stampo statunitense, estetizzando la quotidianità del leader e spettacolarizzando la politica, esito di un paese sensibile alle dinamiche divistiche.
Il divismo come esistenza stessa della comunicazione
Francesco Alberoni nel 1963 scriveva: L’èlite senza potere. Ricerca sociologica sul divismo, rilevando nella deificazione di attori, sportivi e cantanti, un collante nuovo per le comunità: i divi potevano essere idolatrati trasversalmente, essendo oggetto di pubblico pettegolezzo. Le condizioni del divismo erano pertanto l’esistenza di comunità di grandi dimensioni e la presenza di mezzi di comunicazione di massa su cui poter veicolare i ritratti, le immagini rubate e contese, la sensazione diffusa di essere parte di quella narrazione.
Ebbene, inizialmente i soggetti politici erano necessariamente esclusi da queste dinamiche, perché mentre i divi rappresentavano l’alterità, la trasgressione, il sogno americano che si scontrava con il neorealismo nostrano, le figure istituzionali si facevano portatori dei vincoli morali, del canone etico.
Tutto ciò si sgretola progressivamente, e in modo eclatante, con Ronald Reagan, l’attore politico per antonomasia: il carisma weberiano del leader comincia a misurarsi a suon di telegenicità. La parabola dell’ascesa politica va innanzitutto rappresentata, perché l’onnipresenza mediatica consente di costruire l’idolo del decideur.
Silvio Berlusconi, il comunicatore moderno della politica italiana
La strategia mediatica estetizzante craxiana è visibile nei congressi, organizzati dall’abile Filippo Panseca, in cui trionfano l’opulenza e il chiacchiericcio, e tra i commensali svetta il garofano rosso: di lì a pochi anni, Craxi girerà spot politici, antesignani della ben più nota discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Quest’ultimo ha inaugurato la reale modernità nella comunicazione politica italiana, complici abilità personali, risorse di potere che gli assicuravano visibilità, ma certamente la sua capacità di imparare il marketing politico dagli americani, decisamente i migliori nelle campagne politiche permanenti. Il resto è storia: dalle camicie bianche con le maniche tirate su, a Vanity Fair, a TikTok.
In conclusione, i volti sui manifesti oggi sono necessari perché esito di processi sincronici storici molto più grandi del nostro paese e del nostro tempo contemporaneo, che è il tempo dell’homo videns secolarizzato e della democrazia del pubblico. Se il ruolo pedagogico tradizionalmente svolto dai partiti si eclissa, non ci resta che investire la nostra fede nella guida del singolo individuo, che populisticamente vogliamo trattare come “uno di noi”. Si tratta di un correttivo mediocre alla delegittimazione, ma anche della conseguenza di un ecosistema mediatico sempre più convergente, dentro la cui foga comunicativa ricerchiamo lo smarrito senso della collettività.