Come le scelte comunicative si diffondono: dalla politica alla scuola

Di il 29 Giugno, 2024
comunicazione politica
Dobbiamo stare attenti alle scelte comunicative, a modi di esprimersi meno diretti ma penetrati nel tessuto sociale, in grado di manipolare e alterare le informazioni storiche e i loro riflessi sull’attualità

Quando si parla di comunicazione politica, è utile tornare alla classica immagine del sasso lanciato nello stagno (la società), poco importa se al centro o altrove (perché quel punto assurge a nuovo centro): il moto innescato da un intervento si propaga e ovunque vedremo le increspature da esso derivate, più o meno lievi.

Questa è una dinamica naturale nel discorso pubblico, ma diventa problematica quando viene esasperata, e le increspature si trasformano in elementi di disturbo significativi.

È questa la situazione della politica attuale, nel segno della «virata pop» (Banti 2020). E il quadro si aggrava in uno scenario fortemente polarizzato, dove viene meno la prospettiva del confronto dialettico, a favore di forme di antagonismo sempre più accentuate, specie in Italia con la condizione di campagna elettorale permanente. 

La comunicazione politica ne risente, specie quando un governo di destra si presenta da sé attraverso immagini militari (la premier come soldato, con l’elmetto sempre in testa). Già solo un atteggiamento del genere cade di peso nella semiosfera, con conseguenze di lungo periodo ed effetti indesiderati: una società che rifiuta sempre più il dialogo e opta per lo scontro verbale e non; e addirittura nelle scuole, si arriva al punto che durante le ore di lingua e letteratura italiana un professore – come il sottoscritto – sente esprimere da alcuni ragazzi (non tutti, per fortuna) posizioni aggressive su temi sociali urgenti, e da questi stessi arriva la preoccupante richiesta di poter affrontare argomenti “utili”, come saper gestire una discussione per “sconfiggere l’altro e imporsi”.

Si registra così il travaso di atteggiamenti e posture discorsive dai piani alti a quelli bassi della comunicazione pubblica, con i toni dell’ostilità programmatica presi a (triste) modello dai cittadini in formazione.

Ma queste dinamiche riguardano anche l’uso di specifiche parole, con il relativo portato di valori e contenuti (e misurare le parole non è questione di lana caprina, ma strumento rivelatore come pochi). Il discorso pubblico si diffonde e manipola le percezioni, incide anche qui a partire dal livello scolastico, attraverso una volontaria parzialità che crea quasi una membrana: questa isola certi individui in una bolla ideologica – spesso culturalmente povera – e non consente l’ingresso di anticorpi critici.

E si possono incontrare ragazzi che ripropongono in classe le posizioni di certi politici, si mostrano refrattari ad ogni approfondimento suggerito dal docente, su questioni sociali (migranti o diritti civili) o su una questione storico-concettuale come il comunismo, su cui ora ci soffermeremo, al di là di ogni posizionamento, per il tema dell’uso delle memorie storiche. 

“Si sente antifascista?”, e il ministro afferra il microfono del giornalista e interroga i cronisti: “E voi siete anticomunisti?” (domanda e gesto irruenti, ripetuti in più di un’occasione); “se è doveroso e sacrosanto definirci antifascisti… allo stesso modo se si è sinceri democratici bisogna definirsi anticomunisti”; “non mi venite a dire che in Italia non c’è stata una dittatura comunista!”; il comunismo viene poi identificato con una presunta gauche caviar, il classico bersaglio radical chic (e ci si chiede quale sia il nesso fra comunismo e ostriche e champagne).

“Se, secondo me, il gesto della Decima è un gestaccio? Per me è peggio cantare Bella ciao perché il comunismo ha portato a milioni di morti. Purtroppo, in questo parlamento esistono ancora i comunisti”. Queste sono solo alcune dichiarazioni che si possono raccogliere in un periodo che va dall’inizio del 2024 ad oggi, alcune in pieno clima di campagna elettorale, tra regionali ed europee.

Sono dichiarazioni sullo spauracchio comunista, nulla di nuovo – da un certo punto di vista – dati gli usi prima della Dc e poi, con altre modalità, di Berlusconi, che ne fece un refrain martellante. Ma c’è ora qualcosa di nuovo, e che si giova dell’assenza ormai consolidata da decenni di un vero partito comunista sulla scena politica italiana: la rilevante e discutibile equiparazione – ove non peggio – fra comunismo e nazifascismo.

I crimini dello stalinismo vanno condannati in modo fermo, ma non si può schiacciare il comunismo in sé sull’esperienza totalitaria sovietica, negando la sua natura autonoma di pensiero (comunismo/marxismo) filosofico ed economico (condiviso o meno, non importa).

Questa scelta genera fraintendimenti pericolosi, alimentati purtroppo da una risoluzione del parlamento europeo del 2019, pure discutibile. Quel documento condannava tutti i totalitarismi, ma invece di far riferimento chiaro a Stalin equiparava l’ideologica comunista a quella nazista, scelta terminologica e di contenuto storicamente infondata.

Tra l’altro quella risoluzione vide grandi contrapposizioni fra i diversi schieramenti, con un compromesso finale non soddisfacente (a ragione) per molti socialisti ad esempio, che hanno visto il documento troppo sbilanciato verso i gruppi di Ppe ed Ecr (la cui proposta iniziale era molto sbilanciata verso l’attacco al comunismo). 

Queste posizioni alterate sono motivate dall’effettiva cortina di ferro per i paesi dell’ex patto di Varsavia, ma di sicuro causano problemi nelle politiche della memoria (cieca condanna del comunismo, identificato in toto con il regime di Stalin, e minimizzazione del nazismo; Crainz 2022).

Anche l’Italia però ha vissuto a suo modo, sul solo piano ideologico, il muro, e si assiste a dinamiche affini nel nostro dibattito, con i partiti di destra che sminuiscono alcune colpe fasciste e attaccano invece il Pci, che pure si collocò in modo netto fra i soggetti democratici (svolta di Salerno) e costituenti (pensiamo a chi presiedeva la costituente, Umberto Terracini, critico senza nessun esitazione nei confronti della situazione sovietica), prendendo anche le distanze dal terrorismo rosso durante gli anni di piombo (non si può dire lo stesso per Msi e i neofascisti armati).

Questo schema comunicativo punta sull’ignoranza dei cittadini, visti e voluti come telespettatori, utenti della grande arena social dove ogni informazione è ridotta alla superficialità. La politica desidera questo tipo di elettori, e ciò si riflette sulla società e sulle pratiche di acquisizione dell’informazione, a partire dalla palestra fondamentale che è la scuola. Gli (ab)usi della memoria storica sono centrali per la costruzione di programmi politici polarizzati, con il controllo dei governi sui manuali scolastici e sulla narrazione che viene lì presentata (con tutti gli aspetti connessi; Crainz 2022).

Il contrasto fra comunismo e capitalismo è legittimo e sano nella dialettica politica (per quanto, l’esasperazione del secondo sia confluita in colonialismo e imperialismo, altro orrore da riconoscere e condannare). Diverso è il discorso per nazifascismo e stalinismo, entrambi da condannare, e senza far passare l’associazione immediata fra comunismo e mondo sovietico. Questo si riflette nelle scuole, dove i ragazzi ripropongono in classe affermazioni come quelle sopra riportate, senza nemmeno aver mai letto il Manifesto di Marx, confinati ad una percezione parziale che porta a vedere nelle opere simbolo di un profondo pensiero filosofico la fonte di grandi crimini, quasi si trattasse di testi alla stregua del Mein Kampf. 

Questa situazione discorsiva viene alimentata, in un circolo vizioso, dai piani alti del discorso politico, e la mancata (in)formazione, sociale e scolastica, rappresenta uno dei problemi più seri, che la politica dovrebbe affrontare. Ma in certe occasioni questo risultato osservato in presa viva durante la pratica di insegnamento non sembra casuale: uno dei primi atti dell’attuale governo fu la “lezione” di storia del ministro dell’istruzione il 9 novembre 2022. L’anniversario della fine dell’Urss venne trasformato in un’invettiva contro il comunismo tout court, e la condanna da Stalin ricadeva su Marx, Engels e i vari protagonisti, democratici e giusti, del socialismo mondiale. 

Circolari ministeriali, controllo su libri di testo e programmi, sono forme attive d’influenza, ma dobbiamo stare attenti anche alle scelte comunicative, a modi di esprimersi come quelli prima ricordati, meno diretti ma penetrati nel tessuto sociale: manipolano e alterano le informazioni storiche e i loro riflessi sull’attualità, specie sui giovani che naturalmente guardano alle posizioni apicali per assimilare modelli (oggi purtroppo sempre meno validi).

A. M. Banti, La democrazia dei followers, Roma, Laterza, 2020

G. Crainz, Ombre d’Europa. Nazionalismi, memorie, usi politici della storia, Roma, Donzelli, 2022

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Matteo Cazzato è dottore di ricerca (Doctor Europaeus) in Forme dello scambio culturale per il programma internazionale delle Università di Trento e Augsburg, con un progetto di ricerca in Filologia Italiana e Romanische LiteraturWissenschafts su Dante e i processi comunicativi intertestuali durante il periodo umanistico-rinascimentale. Ha svolto la sua attività di ricerca fra l’Université de Lausanne e la LMU di Monaco di Baviera. In precedenza si è formato sulla letteratura moderna e contemporanea (Leopardi, Montale, Pasolini e altri) presso l’Università di Pavia e il Collegio Ghislieri, con soggiorni a Ginevra, Parigi e Pisa. Si è formato anche in ambito interculturale con un Master sulla didattica dell'italiano L2. Ha partecipato a diversi seminari e convegni, in Italia e all’estero, e ha organizzato alcuni convegni, seminari e giornate di studio. Ha scritto articoli per diverse riviste scientifiche nazionali e internazionali. È membro del comitato editoriale della rivista «Ermeneutica Letteraria» (ANVUR A). Collabora con le testate Le parole e le cose.it e Left. Un pensiero nuovo a sinistra. È autore di una raccolta poetica, Miraggi di dolcezza. I fiori del mio deserto, edita da Transeuropa Edizioni nel 2022. Viaggiatore, musicista e amante della cucina, attualmente insegna in una scuola superiore della provincia di Brescia e svolge attività di ricerca.