Bersaglio desinenze: l’ultima frontiera della guerra d’identità

Di il 27 Luglio, 2024
La lingua è un fatto culturale, vive nel tempo e nella storia, e come tale è soggetta ad un suo processo evolutivo (di certo non è statica) che non avviene certo a colpi di decreto legge

Questi giorni ha suscitato un grande dibattito la proposta di un parlamentare leghista, che avrebbe voluto vietare la declinazione al femminile negli atti pubblici per i nomi di categoria che indicano le diverse cariche ricoperte, con l’imposizione di una multa in caso di infrazione. La proposta è stata ritirata tra imbarazzi e polemiche, e per fortuna è anche intervenuto, con saggia e pungente ironia, il Capo dello Stato (come capita spesso negli ultimi tempi di questa legislatura). 

Questo non è un fatto isolato, ricordiamo che la legislatura si è aperta con un ddl presentato alla Camera da un importante esponente del partito della premier, per perseguire i forestierismi nella lingua italiana, con multe fino ai 100.000 euro. 

Al tempo ero intervenuto sulla faccenda (Autosufficienza, sovranità, autarchia: tentativi zoppicanti di politica linguistica”, su Le parole e le cose.it). Tocca constatare che l’atteggiamento è sempre lo stesso – un conservatorismo che si fonda su mancata conoscenza della materia specifica. I due partiti di estrema destra si sono poi spartiti i bersagli: da una parte chiuso nazionalismo e dall’altra repressione del diritto alla parità e alla libera scelta. 

Come già ho sostenuto, la lingua è un fatto culturale, vive nel tempo e nella storia, e come tale è soggetta ad un suo processo evolutivo (di certo non è statica) che non avviene certo a colpi di decreto legge. L’evoluzione linguistica non può essere normata, costruita a tavolino come più ci piace, o anche peggio arrestata.

È sbagliato oltre che irrealizzabile, per fortuna, in diversi casi: quando si vogliono imporre forzature come asterischi e schwa (dettati da nobili intenzioni sì, ma che non tengono conto delle effettive possibilità di realizzazione e del funzionamento del sistema lingua come struttura sociale e culturale nell’uso vivo)* e ancor più quando si vogliono limitare usi, previsti dalla grammatica e diffusi fra i parlanti, per dettare linee identitarie. 

In tutto questo va tenuto presente che la lingua italiana offre certe possibilità di declinazione per genere dei lemmi che indicano una categoria di persone, la grammatica lo fa di suo, non si tratta di prodotti del politically correct. E allora, davanti alle possibilità plurime esistenti, la libertà di scelta dei singoli deve rimanere, sempre e inalterata, a meno di non voler creare una società stile 1984, in cui regnano imposizione sorveglianza e sanzione, ma solo verso quello che non piace a chi comanda. Dottore dottora e dottoressa, avvocato avvocata e avvocatessa, sindaco e sindaca, professore professora e professoressa, rettore e rettrice, saranno una scelta della singola persona, in base alla sua sensibilità, alla competenza (alcune varianti sono più o meno note), e anche al gusto estetico che resta – per fortuna di tutti – non sanzionabile (io stesso avverto come cacofonico dottora, ma apprezzo avvocata e sindaca, a ognuno le sue preferenze). 

Certo è grave che il presidente di Nazione Futura (fondazione vicina a FdI), in una trasmissione televisiva ci tenga a rimarcare che Kamala Harris è il nuovo candidato alla presidenza USA, sottolineando la preferenza per il maschile, quando la lingua offre tranquillamente, senza stranezze di sorta, l’opzione candidata. Diverso è anche il caso legato personalmente a Giorgia Meloni, e alla sua scelta di inizio mandato relativa alla parola presidente. Legittimo rifiutare presidentessa (pur previsto dalla lingua italiana), anche perché in effetti presidentessa del consiglio non suona granché bene.

Ma presidente è un participio presente sostantivato, e in quanto tale diventa termine generico di categoria, per indicare chi presiede qualcosa. Non è declinabile per desinenza, ma può (e deve) essere accompagnato dall’articolo, sia maschile che femminile.

Se una donna in ospedale vuole farsi chiamare dottore o dottoressa, è una scelta personale, con un impatto sì ma non così esteso, e soprattutto dal punto di vista linguistico soggetto al criterio della gradevolezza fonica. Ma il presidente o la presidente è un’alternativa che non presenta questi problemi, non è discutibile, anzi è richiesta dalla grammatica. In questo caso la scelta di Meloni a favore di signor presidente del consiglio è tutta ideologica e con conseguenze rilevanti, dato il ruolo apicale: esibizione di una concezione del potere e del suo esercizio di un certo tipo, su cui quanto meno dovrebbero interrogarsi gli stessi interessati. 

Spunti per riflessione

Per accompagnare le riflessioni personali sul tema, interessante e complesso, rimando a due interventi: il volume di E. Lombardi Valluri, Le guerre per la lingua. Piegare l’italiano per darsi ragione, Torino, Einaudi, 2024; la posizione espressa dall’Accademia della Crusca davanti a un episodio di qualche mese fa, con l’adozione provocatoria del femminile sovraesteso nei documenti dell’Università di Trento, anche perché viene lì riportato l’illuminante intervento della prof.ssa Serenella Baggio, dell’ateneo trentino, sulla vicenda, apparso sul «Quotidiano trentino» il 4 aprile 2024, col titolo La lingua è una cosa seria. Non si può manipolare.

* L’identità di genere è un diritto fondamentale (nonostante la contrarietà di alcune parti politiche) e va tutelato sempre, anche nelle forme comunicative, rispettando il personale riconoscimento come binario o non binario. Asterischi e apposite opzioni multiple in documenti scritti e formulari funzionano in quanto lingua scritta, e non destano problemi (al di là del gusto personale, che però in quanto personale non può fare o subire norma). Il fatto è che gli asterischi non hanno una resa fonetica, e da questo punto di vista anche lo schwa non può funzionare nei fatti (si veda al riguardo la bibliografia segnalata in fondo all’intervento). Se e quando la lingua d’uso, nella sua naturale evoluzione orale, svilupperà nuove forme espressive per questa realtà, queste andranno adottate, spiegate e istituzionalizzate dalla grammatica. Ma il cambiamento disegnato con squadra e compasso non è mai auspicabile per un organismo vivo come il linguaggio. 

Leggi anche: Media politics. La lingua come costruzione politica

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Matteo Cazzato è dottore di ricerca (Doctor Europaeus) in Forme dello scambio culturale per il programma internazionale delle Università di Trento e Augsburg, con un progetto di ricerca in Filologia Italiana e Romanische LiteraturWissenschafts su Dante e i processi comunicativi intertestuali durante il periodo umanistico-rinascimentale. Ha svolto la sua attività di ricerca fra l’Université de Lausanne e la LMU di Monaco di Baviera. In precedenza si è formato sulla letteratura moderna e contemporanea (Leopardi, Montale, Pasolini e altri) presso l’Università di Pavia e il Collegio Ghislieri, con soggiorni a Ginevra, Parigi e Pisa. Si è formato anche in ambito interculturale con un Master sulla didattica dell'italiano L2. Ha partecipato a diversi seminari e convegni, in Italia e all’estero, e ha organizzato alcuni convegni, seminari e giornate di studio. Ha scritto articoli per diverse riviste scientifiche nazionali e internazionali. È membro del comitato editoriale della rivista «Ermeneutica Letteraria» (ANVUR A). Collabora con le testate Le parole e le cose.it e Left. Un pensiero nuovo a sinistra. È autore di una raccolta poetica, Miraggi di dolcezza. I fiori del mio deserto, edita da Transeuropa Edizioni nel 2022. Viaggiatore, musicista e amante della cucina, attualmente insegna in una scuola superiore della provincia di Brescia e svolge attività di ricerca.