Abbiamo dimenticato, o sottovalutato, il ruolo delle edicole

Di il 16 Giugno, 2024
Con l’accesso fulmineo a tutti i fatti del mondo viene meno il senso di prossimità, appartenenza e partecipazione a una dimensione comunitaria scalabile

Il “Tambury Gazette” è il quotidiano locale di Tony, protagonista della serie dark comedy “After Life” creata e interpretata da Ricky Gervais. Il Tambury è, prevedibilmente, in difficoltà: è un giornale di provincia che per restare a galla deve spesso fabbricare notizie forzosamente eclatanti, i “casi bizzarri” di cui si occupa lo stesso Tony. È un giornale di prossimità, un gazzettino che si distribuisce ancora porta a porta, ed è il collante delle vicende locali.

La sede del Tambury è un luogo simbolico: molto più di un ufficio, è invece il racconto in divenire della comunità che, leggendo di sé sul giornale, si riconosce come simile e in interazione, si (ri)vede, si rielabora come gruppo.

Tra l’ufficio del Tambury e il piccolo borgo è aperto un canale comunicativo doppio: i giornalisti vivono le strade della città alla ricerca della cosiddetta notizia, spesso nei suoi risvolti tragicomici, mentre i cittadini – che possono essere parenti, amici, vicini, colleghi, co-abitanti della comunità – si affidano al mezzo cartaceo per orientare lo sguardo: cosa agita il quartiere? Come le mie grottesche vicende possono intersecare lo spazio pubblico? Chi mi abita accanto e come posso fare a vedere fuori da me?

Rupert Murdoch, nel 2006, aveva inteso che il business della carta stampata avrebbe patito la rivoluzione delle piattaforme, ma era positivo sul fatto che il bisogno di notizie, vorace e spasmodico, dei pubblici, non si sarebbe mai esaurito. Queste dichiarazioni rivelavano la riduzione semplicistica del giornale a un contenitore di notizie, appunto, volte a soddisfare una specie di domanda ininterrotta ed eguale.

Ciò non tiene conto, chiaramente, della dimensione di scala e della geografia degli effetti delle notizie, che sono tali perché selezionate in base ai presunti impatti e interessi dei lettori.  È nel concepimento stesso del giornale l’idea di un prodotto che riguardi direttamente i suoi lettori: nei settecenteschi Tatler e Spectator, il claim invocava alla partecipazione di una pluralità di soggetti intenzionati a leggere le vicende simultanee delle comunità prossime, e a prendere la parola.

L’evoluzione di quel modello, si intuisce, diventa repentina con l’urbanizzazione che fortifica il legame tra il giornale e il cittadino su una dimensione concreta e misurabile di prossimità spaziale e temporale. Nella città nasce il fait divers, il racconto, la cronaca dell’evento vicino che riempie di senso il paesaggio urbano: attraverso la cronaca prende vita una forma di partecipazione e di esperienza della città stessa. 

Il giornale quotidiano è come la foto di gruppo della quinta liceo, è una prova tangibile di appartenenza a uno spazio-tempo sincronico, fornisce la possibilità concreta dell’intervento. In una società organizzata su un piano globale, in cui la dipendenza trasversale di tutti dipende dalle decisioni di poche entità fumose e distanti, anche la fruizione dell’informazione tende a spersonalizzarsi: per questo la notizia è fondamentale psicologicamente e concretamente, perché fornisce un’illusione di controllo degli apparati impersonali di decisione.

L’intuizione hegeliana sul rituale della lettura del giornale sottintende la funzione di questo nel collegare l’individuo al mondo sulla base della notizia: ma è necessario che questa si riferisca a un universo riconoscibile di eventi e soggetti. La digitalizzazione e l’accesso fulmineo a tutti i fatti del mondo intero ci espone a una duplice perdita: il senso di prossimità, appartenenza e partecipazione a una dimensione comunitaria scalabile; l’abbandono della ritualità dello scambio di fatti ed eventi, che necessita di punti fermi, di interlocutori identificabili, di spazi condivisi. 

La precarietà del lavoro giornalistico non riguarda soltanto il nostro paese, ma sta creando serie minacce a una delle democrazie più necessarie al mondo, e cioè quella statunitense. La migrazione delle testate minori sul digitale, come rilevato da Joshua Benton, ha creato “news deserts” nelle vastissime regioni americane, contribuendo alla disinformazione e al disinteresse dei cittadini alla cosa pubblica. Il fallimento delle testate locali è un sintomo del collasso del modello giornalistico e, accompagnandosi alla chiusura delle edicole, si aggiunge a un processo irreversibile di punti di contatto e di scambio nello spazio pubblico.

L’informazione è molto più dello strillone mediatico o del dettaglio di servizio: è un processo culturale di scambio, ricezione, dibattito. È un presidio di democrazia quando concepita come approfondimento e procedimento rituale di  incontro e riconoscimento: immaginarsi di poter prendere la parola presso le testate locali, sapere che all’edicola si potrà apprendere e confrontarsi su qualcosa che ci riguarda, immaginarsi di poter usare quel momento come snodo di scambio e confronto, sono i prerequisiti per restare membri attivi – soggetti e oggetti di quell’informazione -, capaci di incidere sul reale, e non soltanto di lasciarsi travolgere dal suo pseudo-racconto. 

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Ludovica Taurisano è dottoranda di ricerca in Global History and Governance per la Scuola Superiore Meridionale di Napoli, con un progetto di ricerca sull’editoria popolare e l’informazione politica negli anni Sessanta e Settanta. Con una formazione in teoria e comunicazione politica, si è occupata di processi di costruzione dell’opinione pubblica; ha collaborato con l’Osservatorio sulla Democrazia e l’Osservatorio sul Futuro dell’Editoria di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Oggi è Program Manager per The European House – Ambrosetti. Scrive di politica e arti performative per Birdmen Magazine, Maremosso, Triennale Milano, il Foglio, Altre Velocità e chiunque glielo chieda. Ogni tanto fa anche cose sul palco.