
Arrivati in coda alla sempre densa stagione dei premi hollywoodiani, che si apre a ottobre con i Location Managers Guild Awards e si chiude tra febbraio e marzo con i premi Oscar, è un esercizio interessante indagare cosa traspare dalle nomination e dai risultati.
In particolare, da quelli definitivi dati dall’Academy, che permettono di leggere in controluce l’immediato futuro delle esigenze di Hollywood.
Arrivati quest’anno alla 97esima edizione, gli Academy Awards sono ben più di una parata di star che ritirano le iconiche statuette.
Al contempo, vanno al di là del semplice riconoscimento della qualità artistica o tecnica dei film selezionati per la gara.
Di moda
I premi Oscar sono la dichiarazione da parte dei produttori hollywoodiani del proprio stato dell’arte, una valutazione di dove si è arrivati nel panorama cinematografico e in che direzione lo si vuole portare.
Per questo, è necessario saper leggere tra le righe di nomination e premiazioni: molto spesso la sola possibilità da parte di un film di vincere una statuetta ne condiziona la distribuzione e il rilancio, nonché la fortuna commerciale in tutte le successive finestre di mercato.
Conferire un premio significa quindi per l’Academy porre un forte accento su una performance attoriale, su un linguaggio registico, su uno stile di montaggio e altre caratteristiche, indicando traiettorie per le produzioni a venire, oltre che per gli investimenti su cui puntare.
Non a caso si notano spesso delle mode ricorsive nel conferimento dei premi: per molti anni le performance mimetiche degli attori dei biopic hanno conquistato i favori dei votanti, come ci sono state le fasi alterne dei filmoni e delle prove d’autore.
Nuovo modello
In questa edizione di candidature, per molti versi estreme e magniloquenti, con film capaci di racimolare fino a 13 nomination, il messaggio dell’Academy ai produttori è stato chiaro: Anora è, appunto, il modello produttivo per la Hollywood che viene.
Con le sue cinque statuette, tra cui miglior film e miglior regia, la pellicola di Sean Baker diventa una dichiarazione esplicita e inequivocabile di cosa voglia l’Academy dai produttori: un film pregevole, dal ritmo incalzante – nella sceneggiatura e nel montaggio, entrambi premiati -, a basso costo – sei milioni di dollari -, con un’aura indie di stampo Sundance che può piacere anche in territorio europeo – in questo caso, Cannes.
Una decisa sterzata rispetto al riconoscimento dell’Oppenheimer di Christopher Nolan dell’anno scorso.
E, allo stesso tempo, una presa di distanza da un mercato variegato e variopinto che aveva portato in competizione per il miglior film pellicole magniloquenti sul piano artisico – The Brutalist -, potenzialmente divisive – Emilia Pérez – o dall’estetica estrema – The Substance.
Di fronte a un ampio ventaglio di proposte, capaci spesso di polarizzare critica e pubblico, l’Academy punta l’attenzione su un film economico e dalla morale ecumenica, integrabile a livello politico col cambio di direzione dell’agenda statunitense.
In più, indirizza Hollywood verso una perdita — almeno nelle prassi — dell’imperante centralità dei grandi studios, puntando i riflettori sulla figura autoriale di Baker che è demiurgo artigiano del suo produrre, coinvolto direttamente in tutte le fasi creative.
E poi
Per quanto riguarda il resto delle premiazioni, a eccezione di “statuette quota” doverose per riconoscere l’indubbia qualità – soprattutto tecnica – di molte produzioni, brillano nell’insieme i premi a Flow e a No Other Land.
Il primo, gioiello d’animazione lettone a basso budget, riesce a superare il campione d’incassi Inside Out 2, mostrando come l’animazione possa farsi anche al di fuori degli Stati Uniti.
Questo risultato può incoraggiare una sana sperimentazione in uno delle forme produttive che più hanno mostrato segni di evoluzione negli ultimi anni.
Lo stesso discorso vale per No Other Land, documentario israelo-palestinese la cui vittoria agli Oscar è stato uno dei pochi momenti esplicitamente politici della cerimonia.
Il film si inserisce in un interessante e fruttuoso filone di produzioni documentaristiche che non hanno paura di spingere su mezzi, forme narrative e regimi di rappresentazione, tanto da far sperare che questo riconoscimento dell’Academy vada al di là della contingenza storica.
E se anche qui la produzione può dirsi ecumenica nella forma, non lo è nella sostanza di un prodotto che ci si augura possa trovare una più forte spinta distributiva grazie al premio.
Meno biopic
Ulteriori riflessioni meriterebbero certe debacle — A Complete Unknown, otto nomination e nessuna statuetta — che indicano in negativo quanto il successo di Anora pone in positivo: con tutta probabilità, è la fine della stagione del biopic, nonostante a decretarla sia un film che ha fatto di tutto per smarcarsi da facili e ridondanti tendenze.
Con una cerimonia di nuovo asciutta e lineare, punteggiata da pochi momenti di varietà che potessero distrarre dal punto centrale della kermesse — i film —, quest’edizione degli Oscar ha lanciato il suo messaggio ai produttori e a tutta Hollywood.
Le prossime infornate di produzioni — coi relativi dati di mercato — mostreranno quanto questa direzione possa aderire a un mercato statunitense che, senza dubbio, ha bisogno di mostrarsi con una nuova immagine per dirsi ancora alla guida dell’immaginario collettivo e globale.