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Il Presidente Donald Trump ha promesso una “rivoluzione del senso comune”, con due ordini esecutivi che stanno impattando sulle politiche inclusive tanto negli uffici della Casa Bianca, quanto nelle università e nelle aziende, a partire dall’industria dell’intrattenimento per eccellenza: Hollywood.
La battaglia alla cosiddetta DEIA – ossia Diversity, Equity, Inclusion e Accessibility – della nuova amministrazione di Washington è entrata nel vivo.
Stanchi della cultura woke
Trump ha intercettato un sentimento diffuso in America, ma i segnali erano già evidenti.
Durante il pride del maggio scorso a New York, Target, una famosa catena di grandi magazzini americani, ha rinunciato a esporre in alcuni punti vendita i simboli e prodotti di merchandising che contenessero espliciti riferimenti all’arcobaleno, giustificando la scelta come un modo per tutelare l’incolumità dei dipendenti.
Poco dopo, Michelle Goldberg sul New York Times annunciava la morte della wokeness.
L’autrice denunciava una stanchezza dentro le imprese, ma anche nei circuiti filantropici, su questi buoni propositi che si stavano trasformando in burocrazia e formalità linguistiche.
Le aziende, che vogliono mantenere buoni rapporti con Trump, si sono prontamente adeguate.
Meta, Google, Disney e anche Hollywood stanno trasformando il DEI in D-I-E, cioè morire, cessare.
Tra le 45 aziende indicate da Fortune nella lista “MAGA anti-DEI” ci sono anche le società di consulenza Accenture e Deloitte, quest’ultima la stessa su cui il Dipartimento della Salute americano aveva investito 12 milioni di dollari proprio per la DEI.
Secondo un report di ShareAction, ripreso dal Wall Street Journal, già nel 2024 il sostegno degli azionisti a questioni relative al clima, ai diritti umani e alla diversità si era ridotto, con BlackRock e Vanguard in coda nel loro impegno su questi temi.
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Il campus del Mit a Cambridge, nell’area metropolitana di Boston, in Massachusetts. Foto: Pexels.
Da Hollywood alle università
Lo scorso anno, in concomitanza con l’acuirsi degli scontri per il conflitto israelo-palestinese, il Massachussets Institute of Technology ha smesso di richiedere ai docenti, durante il processo di selezione, i diversity statement, cioè dichiarazioni su come i candidati avrebbero applicato i principi DEI nei loro corsi.
“Possiamo costruire un ambiente inclusivo in molti modi, ma dichiarazioni obbligatorie che inficiano la libertà di espressione non funzionano”, ha dichiarato Sally Kornbluth, alla guida del Mit.
La tendenza è dilagata: dal Colorado alla Carolina del Nord, studenti e studentesse universitari non saranno più obbligati a partecipare a corsi sulla DEI.
Mentre c’è una confusione generale sulle conseguenze pratiche degli ordini esecutivi di Trump, in alcune scuole superiori sono scomparsi gli scaffali dedicati al tema dell’inclusività nelle biblioteche e ai ragazzi non è più consentito usare il bagno che rispecchia le proprie identità di genere.
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Donald Trump, 45esimo e 47esimo presidente degli Stati Uniti. Foto: Wikimedia Commons.
Non solo una questione di linguaggio
Questa tendenza, prevista da Carl Rhodes in “Capitalismo Woke”, non è affatto nuova, ma ora è al centro del dibattito per le roboanti dichiarazioni del presidente.
La speranza è che proprio il linguaggio, per alcuni impropriamente diventato il perno della rivoluzione, anche in questo caso sia sopravvalutato.
Le aziende, pur usando una lingua meno schierata in favore delle politiche di tutela delle minoranze, potrebbero infatti continuare ad agire in direzione di equità e giustizia.
Questo è almeno l’intento dichiarato in forma anonima al Financial Times da alcuni gruppi editoriali statunitensi, che attraverso lo storytelling e la creatività continueranno a promuovere principi inclusivi.