Il 9 dicembre 2024, Paul Krugman ha scritto il suo ultimo articolo per il New York Times, intitolato “My Last Column: Finding Hope in an Age of Resentment”. Speranza e risentimento, gioia e rabbia, forse i due poli su cui si giocheranno le battaglie sociali, culturali e politiche dei prossimi anni.
L’editorialista era al al Nyt dal 2000, posizione di privilegio per guardare, ma a volte anche orientare, moltissimi policy makers ed economisti di tutto il mondo.
Critico delle politiche finanziare tutte improntate all’austerità e ampio sostenitore di riforme come l’Obamacare – una copertura sanitaria estesa nota come Affordable Care Act -, nei suoi ultimi articoli ha messo in guardia i difensori del programma economico di Donald Trump, che reputa fortemente inflazionistico – anche a causa delle tariffe protezionistiche – e improntato a un capitalismo cosiddetto crony. In sostanza, con Trump si svilupperebbe un sistema economico, simile a quello in atto nelle Filippine sotto la dittatura di Ferdinand Marcos, in cui il successo di un’idea di business dipende meno da un buon management e più dalle connessioni politiche a disposizione.
Un modo di strutturare le relazioni tra la politica e gli altri attori sociali, già messo in evidenza nel modello di sistema sociale del sociologo politico Talcott Parsons a metà anni Cinquanta, e che avrebbe pesanti conseguenze anche sull’autonomia dei media.
Non sono nuove, da questo punto di vista, le intimidazioni di Trump ai giornalisti e ai network come Cbs, soprattutto attraverso la sua piattaforma Truth, ma anche dai microfoni della Fox News. La licenza di cui parla Trump non serve a Abc, Cbs o Nbc per la produzione o pubblicazione di contenuto, ma è necessaria per il possesso delle stazioni di broadcasting, supervisionate dalla Federal Communications Commission – Fcc – la cui presidente, Jessica Rosenworcel, ha già manifestato preoccupazione per l’ingerenza del Presidente nell’elezione dei cinque membri della Fcc.
Sempre consapevole di questo legame indissolubile tra economia e politica, Krugman non ha mai aggirato commenti sull’establishment americano e spesso anche europeo. Eppure, da economista, per il suo ultimo articolo sul Nyt ha scelto di ripartire dalla politica, guardando al passato non per trovare qualche teoria economica più funzionale, bensì un sentimento.
Ora, la nostalgia non è mai buon presagio né per il privato individuo né per il cittadino: il sentimento nostalgico può scoraggiare dall’azione, oppure può incoraggiare restaurazioni di uno status quo ante che non tiene conto della situazione storica con cui ci si deve misurare, che è il vero vincolo l’agire.
D’altro canto, demonizzare la nostalgia a priori è un atteggiamento da propulsori del progresso a tutti i costi, in un imperativo che recita “avanti avanti avanti” anche quando si è perso la bussola.
Però Krugman si lascia andare alla malinconia, mai stucchevole, dell’America dei primi anni Venti del XXI secolo.
Certo, un Paese che già al tempo covava, ad esempio, tracce nascenti di cospirazionismi come QANon e certo l’economia aveva le sue difficoltà – ci sarebbero state le bolle finanziarie, ma l’Europa intanto aveva investito nel progetto dell’Eurozona e davvero si guardava al futuro con ottimismo.
Soprattutto, c’era una fiducia nella leadership politica.
Una fiducia che, mutata in risentimento, ha costituito il mattone fondamentale dei populismi nelle loro varie forme. Una fiducia talmente radicata che gli americani, scrive Krugman, faticavano a credere che il loro presidente, il presidente eletto dal popolo, avrebbe messo su la frode irachena.
Su questo, nel 2003 Krugman stesso aveva scritto un articolo, intitolato “Matter of emphasis”, in cui richiamava anche alle responsabilità del sistema mediatico americano rispetto alla “creazione” emotiva della minaccia di Saddam Hussein. Nei corsi di comunicazione politica, viene spesso menzionato il discorso di George Bush come esempio di acuto speechwriting. È il discorso noto per aver coniato espressioni come “asse del male” e per la strategia retorica di costruzione del nemico, attuata su un piano morale e volta a giustificare l’intervento armato.
Questo generalizzato sospetto, si legge, sta dilagando: non riguarda più soltanto le élites politiche, bensì i detentori del potere su largo spettro, dalle banche ai plutocrati inventori, perché qualcuno tra Wall Street e la Silicon Valley, insinua Krugman, dovrà pur prendersi una parte di responsabilità per la rabbia montante del presente americano.
Tra le firme più rinomate del giornalismo economico globale dell’ultimo ventennio, Krugman ci lascia non con un monito tecnico, ma con un augurio politico: che quella rabbia, che può mettere alcune persone in posti chiave decisionali, sia la stessa capace di toglierli da lì.