Come parla il populista Trump secondo David Allegranti

Di il 14 Dicembre, 2024
david allegranti
Mentre Trump ha usato nuovi canali, la campagna incentrata su di sé ha penalizzato Harris. “Obama non ha vinto spiegando chi era, ma raccontando cosa sarebbe accaduto”

Ci sono alcune parole che finiscono sulla bocca di tutti, alcuni concetti che diventano di dominio pubblico. Quanti, almeno una volta, hanno detto, o sentito dire, “populismo” solo nell’ultima settimana?

Ma se si vuole evitare che queste parole si svuotino della propria connotazione, cioè la funzione di indicare un fenomeno più o meno specifico e con dei tratti peculiari, bisogna sapere di che cosa si sta parlando. Questa, almeno si spera, sarebbe la funziona della politologia: descrivere un idealtipo weberiano del fenomeno e poi capire come le sue declinazioni nel mondo reale rispecchiano le caratteristiche individuate.

Con il populismo, gli scienziati politici hanno fatto particolarmente fatica a causa di una specie di sindrome di Cenerentola per cui si è costruita una scarpina di cristallo brillante, senza trovare neanche un piede che potesse calzarla.

I piedi dei populisti sono tanti e molto variegati tra di loro. Non si tratta solo della distinzione tra populismi di destra e di sinistra, ma di chiedersi se esiste – e come si presenta – il nucleo costitutivo del populismo, capace di affrontare la sfida della storia e degli assetti istituzionali che ne permettono la proliferazione.

Per certi versi, non ci sono dubbi su cosa sia populista. Per esempio, identificare nel popolo un’entità quasi metafisica, compatta, francamente surreale perché nebulosa nei suoi criteri di appartenenza, contrapposto al cosiddetto establishment, la casta, i leader o chiunque detenga il potere costituito.

Eppure, sempre nei limiti di una semplificazione per cui mi scuso con la scienza politica, ha sempre affascinato gli studiosi del populismo un aspetto comunicativo: insomma, i populisti parlano allo stesso modo. Cioè, il populismo è anche – a volte, soltanto – uno “stile comunicativo”, come ben descritto nelle pagine di un classico di Flavio Chiapponi, “Il populismo nella prospettiva della scienza politica” (Egea, 2014), ancora punto di riferimento per l’analisi del fenomeno.

Le rivoluzioni tecnologiche mutano le modalità della comunicazione nella sua interezza, compresa anche la comunicazione politica. In un simile contesto, ci si deve interrogare su come lo stile comunicativo dei populisti del nostro tempo si stia adeguando ai nuovi strumenti. La domanda può essere anche posta al contrario: che cosa le nuove tecnologie stanno offrendo al carattere eversivo dello stile comunicativo populista?

È da qui che origina il ragionamento di David Allegranti, giornalista e dottorando all’Università La Sapienza, proprio per approfondire il tema della comunicazione populista e dei suoi nuovi mezzi digitali.

Allegranti ha appena pubblicato “Come parla un populista. Donald Trump, i social media e i fatti alternativi” (Mimesis, 2024), un libro che offre una sintesi efficace dei principali tratti dei populismi, mettendone in luce ai fini della tesi centrale il carattere di “narrazione”. Il populismo, che prolifera nella rabbia e nella paura, ma anche nella post-verità, trarrebbe molta della propria forza persuasiva nel “linguaggio performativo, che consolida e storicizza le differenze e gli stereotipi”.

Allegranti riesce a fare un uso agile di alcuni capisaldi della scienza politica: la dinamica schmittiana amico – nemico, il potere come persuasione, la differenza con la manipolazione, la natura emotiva della politica stessa. Questa letteratura viene poi valorizzata perché messa in connessione con un sistema infrastrutturale in cui i social media sono ponti nevralgici, snodi inaggirabili.

Dunque, i populisti oggi sarebbero dei politici, quindi abili persuasori, ma con una carica eversiva e anti-sistemica che riescono a trasmettere manipolando gli interlocutori anche grazie alla struttura tecnica fornita dalle piattaforme.

donald trump

Muovendosi tra le discipline, Allegranti accoglie spunti dalla sociologia e dall’antropologia politica. Pur riconoscendo la dignità dell’emozione quale agente propulsore, mette in guarda dal compiere scelte solo irrazionali, spesso amplificate dalla viralità e dalla presunzione di vicinanza che il leader populista promette nello scambio social diretto.

Nel capitolo dedicato alla comunicazione trumpiana, mette in luce le differenze con un altro abilissimo comunicatore populista, Matteo Renzi. Una sorta di populista mutaforma, un “criptopopulista”, secondo un adagio di Marco Tarchi, anche Renzi ha solleticato pancia e spirito degli italiani. Con lui gli elettori hanno costruito un rapporto quasi intimo di fiducia in virtù del quale poi si sono sentiti traditi. Ma, a differenza del presidente eletto degli Stati Uniti, non ha mai avuto una mentalità volta a sovvertire le istituzioni.

Invece, Trump ha fatto anti-sistema anche da dentro il sistema, impiegando in modo nuovo Twitter. Con la Twiplomacy, Trump non si cura di uno storytelling: piuttosto, prima vende sé stesso come prodotto, poi da presidente tratta il tweet in funzione esecutiva, cioè spesso per annunciare decisioni presidenziali – è l’atto enunciativo performativo teorizzato da John Langshaw Austin.

Per di più, Trump arriva lì dove forse nessun altro populista è mai riuscito: fa uscire la realtà fuori dagli schermi digitali, con i fatti di Capitol Hill. Dunque, Twitter, che non è un palcoscenico mediocratico ma piuttosto “un’arena infocratica”, consente a Trump di perseguire il potere anche lì dove gli è stato sottratto. Nell’arco breve di un tweet, Trump fa diplomazia, trasmette idee, molto spesso insulta con uno schema riconoscibile di “sostantivo dispregiativo – clown, modificatore immotivato – stupid, intensificatore vacuo – really”.

Ora quel Twitter non esiste più e occorre fare i conti con X e la sua nuova direzione. Cosa pensi del rapporto tra Elon Musk e il neoeletto presidente?
Musk è stato preziosissimo per questa vittoria e per l’aggregazione del consenso. Ora che è diventato consulente, la faccenda si complica. Bisognerà capire l’estensione di questo coinvolgimento e poi, francamente, la sostenibilità di questa collaborazione è tutta da vedere. Oggi, Trump nell’uso che fa di X è meno compulsivo della prima campagna elettorale, dopo il periodo di assenza e considerato il successo di Truth.

Qualche punto in comune col passato è rimasto?
Le caratteristiche aggressive del suo linguaggio, la diffusione di fatti alternativi, la sua tendenza a porre delle questioni decontestualizzate e ai limiti della fede, una specie di teismo contemporaneo, sono immutate.

Pensi che i Democratici abbiano fatto clamorosi errori comunicativi, invece?
Kamala Harris ha impostato una comunicazione non riuscendo a distanziarsi dalla stessa amministrazione Biden di cui è stata vicepresidente. Ha speso molto tempo a veicolare un racconto di sé centrato sul suo passato da procuratrice o sulla sua identità etnica e di genere, come se quello bastasse a giustificarne l’elezione.

Più istituzionale di Trump anche nella scelta dei media durante la campagna.
Trump ha davvero fatto una campagna certosina con i podcaster come Rogan, e tra quegli ascoltatori, giovani maschi bianchi, ha stravinto, mentre Harris si è contornata di uno star system un po’ alla Hilary Clinton. Insomma, Obama non ha vinto perché spiegava chi era, ma perché raccontava delle cose, cose che sarebbero avvenute.

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In questa crisi della narrazione, quali responsabilità ha il giornalismo?
Partiamo dal presupposto razionale che non esistono fatti per alcuni e fatti per altri. Esistono opinioni e interpretazioni, ma su alcuni accadimenti non si può discutere. Io non credo troppo nel fact-checking, o almeno, non vorrei che il giornalismo si riducesse all’attività di debunking, cioè di confutazione delle false notizie.

Quali sono le priorità da recuperare?
Abbiamo di sicuro perso di vista la gerarchia di importanza delle notizie, nel senso che ormai la notiziabilità cede il passo a criteri algoritmici e di eco. Invece, non si dovrebbe dar seguito a storie che non meritano, o dedicare intere pagine facendo un servizio alla fonte più che al cittadino.

Hai qualche esempio?
Io sogno un giornalismo alla Buzz Bissinger, giornalista americano autore di Friday Night Lights. Trascorse un anno in Texas per capire perché lì il football fosse trattato alla stregua di una religione, a contatto con le persone del luogo, raccontando davvero quel territorio nei suoi aspetti sociali e antropologici.

Serve una disponibilità economica che non c’è più.
So che ci sono problemi di risorse, certo, ma c’è anche una pigrizia dell’editore che non crede più nel racconto lungo della complessità.

Parli di tempi lunghi del racconto, ma cosa diresti a chi lamenta di non avere tempo per informarsi?
Lo capisco e non ho una risposta semplice. Vedo anche che questo incoraggia il modello “spiegone”, cioè l’interesse per la sintesi dei fatti offerta da alcune realtà. Ma non dovrebbe essere questo l’obiettivo. Ci sono giovani studenti e studentesse che mi chiedono “quale pagina social seguire”, ma un abbonamento ad almeno un giornale è necessario. So che è difficile, ma bisogna trovare il tempo: è un impegno civico ma anche personale.

Quali testate consiglieresti?
Giornali come il Wall Street Journal e il Financial Times sono garanzia di qualità, mentre per l’Italia suggerisco magari di leggere per una settimana una testata, poi cambiarla, così che possano da soli sviluppare il senso critico attraverso il confronto.

E oltre ai giornali tradizionali?
Ci sono anche eccellenti divulgatori, come Rick DuFer di Daily Cogito e Alessandro Masala di Breaking Italy, rispettivamente 250.000 e 891.000 iscritti su Youtube, che fanno un ottimo lavoro. Penso potrebbero essere di ispirazione per molte testate giornalistiche che vogliano impegnarsi con metodo a innovare il proprio linguaggio e ampliare il proprio bacino di lettori e lettrici.

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Ludovica Taurisano è dottoranda di ricerca in Global History and Governance per la Scuola Superiore Meridionale di Napoli, con un progetto di ricerca sull’editoria popolare e l’informazione politica negli anni Sessanta e Settanta. Con una formazione in teoria e comunicazione politica, si è occupata di processi di costruzione dell’opinione pubblica; ha collaborato con l’Osservatorio sulla Democrazia e l’Osservatorio sul Futuro dell’Editoria di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Oggi è Program Manager per The European House – Ambrosetti. Scrive di politica e arti performative per Birdmen Magazine, Maremosso, Triennale Milano, il Foglio, Altre Velocità e chiunque glielo chieda. Ogni tanto fa anche cose sul palco.