In un momento storico in cui i social media stanno rapidamente diventando il nuovo campo di battaglia per il controllo del dibattito pubblico, le opinioni pubblicate sui media tradizionali rimangono un pilastro fondamentale per l’agenda setting.
Solo nell’ultimo anno, ad esempio, LinkedIn ha visto un incremento del 23% dei post degli amministratori delegati, con un conseguente aumento del 39% dei loro follower. I post dei top manager, uno su tutti il CEO di Spotify, Daniel Ek, ottengono un’enorme risonanza, amplificata da milioni di visualizzazioni e da una crescente copertura mediatica. Su queste piattaforme, i CEO non sono solo leader aziendali, ma anche narratori delle loro stesse storie, influenzando direttamente il dibattito pubblico.
Nonostante il potenziale dei social media, l’importanza delle opinioni pubblicate sui canali tradizionali non può essere sottovalutata. La capacità delle testate storiche di influenzare l’opinione pubblica è radicata nella loro credibilità, costruita nel corso di decenni, se non secoli. Quando un’opinione viene pubblicata su un giornale, non è solo un’idea lanciata nel mare dei contenuti digitali. È un contributo ponderato che passa attraverso un rigoroso processo editoriale, garantendo che le argomentazioni siano ben fondate e che il dibattito sia costruttivo.
Questa credibilità si traduce in un impatto misurabile. Secondo i dati di Memo, una piattaforma di analisi dei lettori, nell’ultimo mese gli editoriali del New York Times hanno registrato il 37% in più di lettori rispetto alla copertura generale delle notizie, mentre quelli del Wall Street Journal hanno visto un sorprendente 571% di lettori in più rispetto agli articoli di cronaca. Questi numeri non sono solo statistiche, sono la prova concreta che le opinioni veicolate dai media tradizionali continuano a detenere un potere significativo nell’influenzare il dibattito pubblico e nel determinare quali temi siano rilevanti.
L’agenda setting, il processo attraverso il quale i media decidono quali argomenti debbano essere al centro dell’attenzione pubblica, rimane strettamente legata alle opinioni espresse sulle colonne dei giornali. In una fase storica in cui l’informazione è frammentata e spesso polarizzata, la capacità delle grandi testate di selezionare e amplificare le opinioni più rilevanti è essenziale per mantenere un dibattito pubblico informato ed equilibrato.
Eppure, il panorama mediatico non è immune alle sfide del cambiamento. La chiusura della sezione dedicata alle opinioni della CNN e la riduzione di queste colonne da parte di Gannett, un colosso editoriale americano, sono segni preoccupanti di una tendenza che potrebbe indebolire la rilevanza dei media tradizionali. Anche le nuove testate digitali, come Axios e Punchbowl News, hanno scelto di non includere sezioni di opinione, preferendo un approccio più diretto e privo di commenti. Semafor, invece, ha preferito inserire l’opinione direttamente all’interno dell’articolo. Un’evoluzione che riflette una tensione crescente tra l’integrità giornalistica e la necessità di adattarsi a un nuovo ambiente sempre più dominato dai social media.
Inoltre, alcuni critici sostengono che le pagine di opinione possono confondere i lettori, sfumando i confini tra contenuto editoriale e contenuto sponsorizzato. Dall’altro lato, molte testate continuano ad investire nelle opinioni, lanciando iniziative come “TIME 100 Voices” e ampliando lo spazio ad esse dedicato come ha fatto Forbes.
Per quanto oggi le piattaforme social soddisfino meglio le brutte abitudini dei lettori più giovani, come la brevità dell’informazione, mi auguro che le colonne che ospitano i commenti di firme autorevoli, esperti e personaggi pubblici continuino a fare quello che hanno sempre fatto per una sana democrazia, nonostante le tante avversità che la rivoluzione digitale ha portato con sé. E in Italia, almeno per il momento, queste colonne sono ancora solide.