C’è il linguaggio politico e c’è la politica del linguaggio, quest’ultima intesa come l’esplorazione degli effetti della lingua sull’identità di una comunità. Del tema si è occupata a lungo Astrid von Busekist, docente di Science Po e autrice, tra l’altro, di The languages of nationalism, compreso in Revisiting nationalism di A. Dieckhoff e Ch. Jaffrelot.
Storicamente, le questioni linguistiche sono state affrontate in antropologia e sociologia, focalizzandosi quasi esclusivamente sull’identità linguistica e culturale. Questi approcci solitamente promuovono e valorizzano la diversità linguistica, che tuttavia può rappresentare un ostacolo per una gestione politica efficiente. La sequenza classica della costruzione della nazione passa dalla razionalizzazione linguistica, con l’imposizione di una o più lingue nazionali ufficiali e questo è stato ancora più evidente per i grandi imperi storici, da quello romano a quello cinese, passando per quello britannico, enormi architetture politiche, commerciali e militari impossibili da realizzare senza il latino, il mandarino e l’inglese.
D’altra parte, per gli antichi greci linguaggio e politica erano strettamente correlati, poiché il linguaggio permetteva la deliberazione e il dibattito, escludendo la violenza. A partire dunque da quella breve finestra storica di democrazia ateniese, Norbert Elias, nel suo Processo di Civilizzazione, ha mostrato come il linguaggio sia poi diventato centrale in ogni attività politica, mentre per pionieri della linguistica come Ferdinand de Saussure il linguaggio è un vero e proprio modello epistemologico della società, interpretando la struttura sociale come una grammatica sociale. Il modello novecentesco di democrazia deliberativa di Habermas è erede diretto di questa tradizione.
Le politiche linguistiche diventano quindi strumento di governance, e le élite hanno cercato di influenzare le scelte linguistiche collettive tramite le istituzioni, prescrivendo ad esempio l’obbligo d’uso pubblico di una o più lingue. L’efficacia delle politiche linguistiche nazionali è legata alla progressiva educazione obbligatoria e a incentivi professionali e simbolici per l’uso della lingua ufficiale. La Francia, dal XVI secolo ad oggi, ha cercato di razionalizzare e mantenere il francese sia come simbolo di appartenenza comune sia come mezzo di amministrazione efficace e durante la Rivoluzione Francese l’abate Grégoire implementò la prima vera politica linguistica, convinto che le idee rivoluzionarie potessero essere pensate solo in francese, così come per le élite intellettuali del quarto e quinto secolo la filosofia poteva essere pensata solo in greco.
Negli anni ’90, la teoria politica ha iniziato a investire sistematicamente sulle questioni linguistiche, riconoscendo concetti come diversità linguistica e giustizia linguistica, individuando almeno due modelli: quello identitario, che promuove la diversità linguistica come moralmente ed eticamente rilevante, e quello economico, che applica schemi di utilità sociale all’adozione di una lingua franca. Due modelli che non si escludono reciprocamente, come aveva evidenziato Samuel Huntington analizzando l’espansione del cinese mandarino come lingua commerciale asiatica egemone.