Giorgia Meloni e l’iconografia del potere: uno sguardo oltre la giacca vuota

Di il 05 Aprile, 2024
Far scomparire la testa, celarsi nell’abito, è un atto comunicativo molto potente. Ancora più potente se operato dalla premier di Fratelli d’Italia che della sua mimica facciale ha fatto un segno distintivo della sua comunicazione.

“Don’t Look at Me with Your Disturbing Eyes”, titola il Wall Street Journal di qualche giorno fa. Al momento, ciò che alla stampa estera interessa di più della politica italiana sembra essere lo stile comunicativo della premier Giorgia Meloni. La foto in questione, con la testa di Meloni nascosta nella giacca, non ha bisogno di essere raccontata perché è stata oggetto di dibattito anche nella stampa nostrana per diversi giorni: ma se dalla stampa estera ci aspettiamo una quasi voluttuosa abitudine a esaltare i divertissement comunicativi dei politici italiani, il significato che l’affaire giacca assume nel termometro della comunicazione dentro al nostro Paese merita un approfondimento.

L’iconografia di riferimento non sarebbe, probabilmente, gratificata da questo tipo di accostamento: da Sleepy Hollow alle serie di Giuditta e Oloferne, il corpo acefalo nell’arte è una simbologia frequente. Ci sono i trocociti, gli uomini senza testa con gli occhi sulle spalle, le giacche vuote di Buzzati, l’inquietante fantasma di Jackson Hills; la giacca vuota è anche Godot che non arriva mai, è la metà lacunosa del visconte calviniano, c’è qualcosa di Magritte e delle sue giacche nere a sostenere teste surreali o crani rivolti altrove.

Far scomparire la testa, celarsi nell’abito, è insomma un atto comunicativo molto potente. Ancora più potente se operato dalla premier di Fratelli d’Italia che della sua mimica facciale ha fatto un segno distintivo della sua comunicazione. In effetti, il casus belli sarebbe stato appunto lo “sguardo inquietante”, cioè la reazione mimica della premier alle parole del deputato Bonelli: ora, delle “facce” della Meloni il Post ha persino scritto, definendo lo stile meloniano “istrionico” ma decisamente sopra le righe per questa occasione. Ma sulla stampa estera non sono finite le espressioni pantomimiche della premier, bensì quell’atto così irrituale e imprevisto, apparentemente mirato alla copertura e che invece finisce per svelare ancora più radicalmente la sovrapposizione tra persona e ruolo, che è poi uno dei punti di forza dello stile leaderistico di Meloni.

Sotto il profilo comunicativo, questa attitudine meloniana è esclusivamente prova di coerenza e può risultare efficace per il suo bacino di elettori. Si parla spesso, e troppo sbrigativamente, di “populismo” nel dibattito italiano, ma mai come in questo caso è utile introdurre una definizione puntuale fornita dalla scienza politica. Tra le più accreditate declinazioni del populismo c’è quella che ne vorrebbe fare uno stile comunicativo: a Weyland e Knight si deve la descrizione del linguaggio e degli intenti discorsivi populistici, di una certa retorica basata sulla catacresi del termine “popolo”. La funzione motivante del linguaggio, aggiunge l’argentino Laclau, che rende quindi performativo l’atto linguistico – come vorrebbero Austin e Searle – superando la semplice denotazione del popolo come soggetto terzo, è il fatto che l’interlocutore privilegiato del messaggio è il popolo stesso, il ricevente eletto a cui rivolgersi con lo stile appropriato. Nello specifico, le semplificazioni e i luoghi comuni, le metafore crude e la potenza del suono pseudo-dialettale, sono i pilastri costitutivi della sintassi populista e del modo in cui suona il discorso populista, a potenziamento dei suoi contenuti retorici e simbolici.

Tuttavia, con il mutamento dell’ecosistema mediatico e della forma-partito stessa, e con l’avvento del fenomeno Beppe Grillo, due variabili hanno scosso un sistema comunicativo che era stato fino a quel momento testato nell’arena propria delle masse, e cioè le piazze. La prima è la fuoriuscita del discorso populista dal suo contesto più naturale, cioè il comizio elettorale, e il suo migrare sulle piattaforme, digitalizzando la disintermediazione stessa; la seconda è il rimando tra comunicazione verbale e variabile extra-linguistica, cioè il comportamento del corpo, i movimenti, la prossemica. Già con Grillo, gli stilemi della comicità, il turpiloquio e il calembour, le innovazioni comunicative, quasi un detournement avanguardistico da primi anni Settanta, si distaccavano dal comportamento in office, mutuando le regole del rituale popolare e applicandole al contesto istituzionale. La “postura istituzionale”, che ci si aspetta dal premierato, equivarrebbe per Meloni a un tradimento del personaggio pubblico che gli elettori hanno imparato a conoscere. La drammatizzazione non è solo delle pratiche discorsive di Meloni, ma nella spettacolarizzazione parossistica anche delle “facce”, degli sguardi a sottolineare la frase rendendola subito fruibile; questa semiotica non è casuale e non è fuori luogo: fa parte dell’altalena emotiva con cui Meloni ha catturato le pance degli italiani, facendo dei coup de theatre con le strategie intrapartitiche così come con tutto il suo corpo esposto durante la campagna elettorale.

Ma se la campagna è permanente, se Meloni ha sperimentato l’efficacia di questa fusione estatica con le folle, non ci si può aspettare che abbandoni questo stile una volta entrata nell’istituzione. Dice Kertzer che non si dà politica senza rituali: ebbene, quello che fa Meloni nel Parlamento non è irritualistico, ma è diversamente rituale. L’occhio spalancato, la deformazione della faccia che amplifica i difetti fisici, il gesto esibito dal sapore vernacolare non sono le risposte al problema posto dal popolo, ma ne catalizzano l’attenzione, riducendone il sentimento di distanza che ha nutrito l’antipolitica. Restando comunicativa a modo suo e a prescindere dal frame, la premier – consapevolmente o meno – prolunga l’immedesimazione empatica, alimentando un pensiero in chi la guarda: e cioè che anche se con la giacca e dentro un Palazzo Madama qualsiasi, Meloni resta una di noi, una del popolo, una dell’elettorato che le ha dato fiducia con il voto.

Ciò che sconcerta nella miopia del dibattito pubblico è l’incapacità di contestualizzare l’atteggiamento meloniano dentro un preciso ecosistema mediatico in cui viene replicato il corpo simbolicamente mutilato del leader. Come scrive Ortoleva, si deve convivere con una schizofrenia nella dialettica tra presenza e distanza, tra disincarnazione digitale e wellness culture. In questo contesto, il corpo del leader torna a interessarci in modo maniacale: la sua manifestazione e rappresentazione (si ricordi il caso armocromia-Schlein) soddisfano un consumo del corpo umano in effigie. In sostituzione del contatto fisico mancante nella quotidianità, ci nutriamo visivamente di ogni gesto, di ogni bocca spalancata, di ogni sguardo inquietante.

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Ludovica Taurisano è dottoranda di ricerca in Global History and Governance per la Scuola Superiore Meridionale di Napoli, con un progetto di ricerca sull’editoria popolare e l’informazione politica negli anni Sessanta e Settanta. Con una formazione in teoria e comunicazione politica, si è occupata di processi di costruzione dell’opinione pubblica; ha collaborato con l’Osservatorio sulla Democrazia e l’Osservatorio sul Futuro dell’Editoria di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Oggi è Program Manager per The European House – Ambrosetti. Scrive di politica e arti performative per Birdmen Magazine, Maremosso, Triennale Milano, il Foglio, Altre Velocità e chiunque glielo chieda. Ogni tanto fa anche cose sul palco.